5 TERREMOTI CHE HANNO SEGNATO LA STORIA DELL’INGEGNERIA SISMICA

I cinque terremoti che hanno segnato la storia dell’ingegneria sismica. Riflessioni all’alba di un nuovo realismo

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di Fabio Lombardini, Ingenio – Tra le pagine che Nietzsche dedica a Eraclito ne “La filosofia nell’epoca tragica dei Greci” (1870-1873), si legge: ‘Il divenire eterno ed unico, la completa instabilità di tutto il reale, il quale non fa altro che agire e divenire continuamente e, come insegna Eraclito, in sé non è nulla, costituiscono nel complesso una rappresentazione terribile e paralizzante che, nei suoi effetti, è massimamente affine alla sensazione che si prova durante un terremoto, quando si perde la fiducia nella solidità della terra’.

Per affermare la grandezza di Eraclito, che consisteva nell’aver identificato l’essenza della realtà nel divenire, il filosofo tedesco paragonò la forza innovatrice della sua filosofia a quella di un terremoto, non immaginando forse, in che misura con la propria filosofia avrebbe allo stesso tempo indebolito la coscienza del rischio sismico, nei decenni a venire ed oggi ancora.

Nietzsche, diffondendo ‘l’idea secondo cui la verità può essere un male e l’illusione un bene, idea alla cui origine vi è la celebre sentenza <<non ci sono fatti, solo interpretazioni>>1, fu il primo artefice, in filosofia, di un progressivo addio alla realtà ed alla verità e di un allontanamento dalla tradizione scientifica occidentale in blocco, perché inficiata, a suo dire, da un dogmatico eccesso di fiducia nella possibilità di estendere con successo i metodi scientifici al di fuori dei loro ambiti naturali.

Questa fu l’origine di una progressiva sfiducia nel progresso filosofico, inteso come fiducia nella verità, che divenne quindi ben presto anche sfiducia nel progresso scientifico, visto come un progressivo allontanamento dall’umanità, a cui la verità non ha portato la felicità.

Si può ben comprendere allora, come una disciplina quale la sismologia, le cui scoperte hanno spesso un portato così difficile da accettare, poiché rivela la dolorosa vulnerabilità dell’uomo e delle sue opere alle forze della natura, abbia risentito, e con essa la percezione del rischio sismico, di una simile idea, che maturando più di un secolo, è giunta da Nietzsche fino a noi, sotto forma di un vero e proprio movimento filosofico e culturale noto come <<postmoderno>>; movimento che oltre a Nietzsche ha altri illustri antenati, ‘il cui minimo comune denominatore sta, oltre che nell’abbandono della realtà, nella fine dell’idea di progresso: alla proiezione verso un futuro infinito e indeterminato segue un ripiegamento. Forse il futuro è già qui, ed è la somma di tutti i passati; ormai abbiamo un grande avvenire dietro le spalle2.

Per la verità, ad introdurre la nozione di postmoderno in filosofia è stato il filosofo francese Jean-Francois Lyotard (1924-1998), con un piccolo libro uscito nel settembre del 1979, “La condizione postmoderna”. Il termine inoltre era già stato usato prima, per indicare certi stili di poesia e di architettura, si pensi per esempio ad architetti come Paolo Portoghesi e gli americani Robert Venturi e Philip Johnson, e dall’illustre storico Arnold Tonybee, per descrivere i nuovi tratti della storia mondiale nel Novecento3. Nel libro, Lyotard associa la nascita della postmodernità al sorgere delle società industriali avanzate, in cui si annuncia ‘una cultura che ha perso i principali caratteri della più recente tradizione occidentale, i quali, secondo l’autore, si riassumono nell’aver prestato fede ad alcune grandi narrazioni o <<meta racconti>>: l’Illuminismo, l’Idealismo ed il Marxismo, la cui funzione era di legittimare la storia umana, configurandola come svolgimento verso un certo fine e fornendo ideali e criteri di comportamento’. Questi racconti, sosteneva Lyotard, erano ormai logori: non ci si credeva più, avevano cessato di smuovere le coscienze e di giustificare il sapere e la ricerca scientifica4.

Stando ad Emanuele Vattimo, il già citato autore di “Tecnica ed esistenza” (vedi nota), tra i racconti della modernità è proprio quello illuministico, che vede la storia dell’umanità come un processo di rischiaramento nella conoscenza, da cui dipende un crescente dominio sulla natura e dunque una vita più facile e felice, a soffrire maggiormente l’attacco del postmoderno, che vede la tecnica in negativo, poiché la sua forza persuasiva sembra renderci prigionieri e ‘sembra capace di ridurre in proprio potere ogni cosa, trasformando tutto in oggetto di calcolo e di manipolazione5.

Ci si chiede ora come nella cultura odierna si possa invece mettere in luce la forza emancipatrice della scienza e della tecnica, nonostante l’effetto oscurante di una corrente culturale il cui influsso è ancora profondo e pervasivo e che ostinatamente insiste sulla riduzione della realtà in mero oggetto di calcolo.

Ebbene, il calcolo, a cui spesso in modo riduttivo viene ricondotta anche l’attività ingegneristica, non è altro che una pratica. Il fatto che esso manifesti il potere di fare le cose, d’intervenire sulla realtà, è oggetto di una critica che non conosce la natura del progresso scientifico, fino al giudizio estremo del grande filosofo Martin Heidegger – un altro degli illustri antenati del postmoderno- che, nel saggio del 1954 “Che cosa significa pensare”, arrivò a dire che ‘la scienza non pensa’. Con questa sentenza egli affermava, in estrema sintesi, che la razionalità scientifica è identificata con una ragione confinata all’applicazione automatica di regole astratte e circoscritte nelle loro applicazioni, i cui esiti sono il risultato di un modo di ragionare esclusivamente <<calcolistico>>, in cui non si manifesta un pensiero sulla condizione umana.

Se si riflette invece sul fatto che il pensiero tecnologico scaturisce dalle angustie della condizione umana, non si può ignorare che il progresso ingegneristico è il risultato di secoli di studi e di opere, non privi di dolorosi fallimenti, che, contrariamente a quanto potrebbe affermare un postmoderno, nel loro procedere rispecchiano una ragione pensante intenta appieno alla riflessione sulla condizione umana.

Anche l’ingegneria sismica, la cui storia moderna inizia al sorgere del XX secolo, come tutte le filiazioni della scienza, nasce proprio dal primo pensiero sulla condizione umana: la cognizione del dolore. Lo dimostra un saggio illuminante di Robert Reitherman, direttore esecutivo del Consorzio Universitario per la Ricerca nell’Ingegneria Sismica, con sede a Richmond in California, intitolato “Earthquakes that have initiated the development of earthquake engineering”, in cui l’autore individua cinque eventi sismici che con i loro tragici effetti, in concomitanza con particolari condizioni scientifiche, non meno che sociali e politiche, hanno aperto l’epoca dell’ingegneria sismica moderna. Ognuno di essi ha tre caratteristiche fondamentali:

1) L’alto livello di distruttività;
2) Il livello di sviluppo raggiunto dall’ingegneria civile in generale, al momento del sisma;
3) L’occorrenza del sisma in un contesto sociale e politico già sensibile al problema della sicurezza delle costruzioni.

La tesi fondamentale è che solo i terremoti avvenuti in presenza di queste condizioni, hanno stimolato sviluppi determinanti nella storia dell’ingegneria sismica, poichè il progresso tecnologico, per sua natura, è tale da non concernere solo una ristretta cerchia di scienziati, ma coinvolge società intere, nel momento in cui sono giunte a giusta maturazione.

I grandi terremoti avvenuti in epoca pre-scientifica sono stati dei semi caduti in terreno sterile, mentre gli eventi sismici all’origine della ingegneria sismica moderna sono avvenuti in un’epoca (il XX secolo) in cui si era già formata una base condivisa di conoscenze ingegneristiche pre-sismiche, inerenti la statica e la resistenza dei materiali da costruzione, da cui partire per elaborare concetti chiave dell’odierna ingegneria, come la dinamica delle strutture e la teoria probabilistica della pericolosità sismica. Basti pensare al terremoto che devastò Lisbona nel 1755, uno tra i più grandi eventi della storia moderna, capace ancora oggi di sollecitare i filosofi sul problema del male che affligge la condizione umana, un terremoto il cui impatto culturale sull’uomo del Settecento è stato paragonato dal filosofo Theodor Adorno in “Dialettica negativa” (Einaudi – 2004), all’impatto culturale della Shoah sull’uomo del Novecento e che, tuttavia, non portò ad alcuno sviluppo antisismico su base scientifica.

E’ noto infatti che, fino all’inizio del XX secolo, gli ingegneri disposero di poco più che la seconda legge di Newton (la celebre equazione: F=m*a), la quale, sebbene sia una legge di portata universale, di per sé non consente certo di quantificare la risposta sismica di una struttura, e che il trattato “ La Teoria del Suono”6 (e delle onde/vibrazioni in generale) di Lord William Rayleigh, che costituì il primo fondamento della dinamica sismica, non fu pubblicato che un secolo dopo il terremoto di Lisbona.

Infine, il terzo elemento che fa dei terremoti <<paradigmatici>> di Reitherman delle pietre miliari nella storia dell’ingegneria, è la ricettività politica. Con questo termine l’autore intende, in senso lato, la sensibilità di una comunità e della sua classe politica alla sicurezza delle costruzioni, nonché la preesistenza di un corpus normativo pre-sismico. Le norme tecniche misurano infatti il livello culturale di un società, in ogni campo dell’attività umana, e nel campo delle costruzioni esse mostrano, in prospettiva storica, un percorso evolutivo le cui tappe sono ordinate in maniera rigorosamente sequenziale. Per questo motivo la preesistenza di norme riguardanti la statica delle costruzioni, la resistenza al fuoco ed ad altre azioni non sismiche, in tutti i casi storici indagati nel saggio di Reitherman, si è rivelata un prerequisito imprescindibile per la successiva evoluzione delle norme sismiche.

Con brevi ma incisivi tratti, frutto di un enorme lavoro di ricerca storica documentata nel ponderoso trattato “Earthquakes and Engineers” (edito da ASCE Press, 2012), Reitherman descrive, in ordine cronologico, i cinque terremoti che hanno segnato la storia dell’ingegneria sismica:

San Francisco, 18 aprile 1906 – magnitudo 7.9: il futuro dell’ingegneria sismica mette radici sulle rovine della città.
Il terremoto di San Francisco del 1906 è il primo dei terremoti che hanno segnato la storia dell’ingegneria sismica. Fu scatenato dalla rottura di un tratto lungo 500 km della faglia di San Andreas, nel nord della California, e rimane di gran lunga l’evento sismico più disastroso nella storia degli Stati Uniti, sia in termini di vittime, circa 3000 secondo le stime, che di danni.

All’inizio del XX° secolo, oltre un quarto della popolazione della costa ovest degli Stati Uniti, dalla California a Washington, era concentrata nell’area della baia di San Francisco; il terremoto del 1906 colpì dunque nell’unica regione della costa ovest in cui avrebbe potuto causare un grande disastro urbano, e così fu.

Tuttavia, la reazione della comunità scientifica americana e delle amministrazioni locali tardò a manifestarsi. Occorre ricordare che in quel tempo il Prof. Riki Sano dell’Università di Tokyo stava sviluppando un metodo di calcolo avanzato dell’azione sismica (denominato <<shindo>>, o <<dei coefficienti sismici>>) e solo tre anni dopo, a seguito del terremoto di Messina-Reggio Calabria, gli ingegneri italiani avrebbero elaborato le prime norme moderne per le costruzioni in zona sismica. Eppure, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, negli anni immediatamente seguenti il disastro, le autorità e la comunità scientifica californiane si orientarono maggiormente sull’implementazione di prescrizioni di carattere qualitativo nelle norme locali, piuttosto che su di un affinamento delle tecniche progettuali e sull’emanazione di vere e proprie norme tecniche per le costruzioni.

Cionondimeno, il terremoto ebbe un impatto profondo sulla ricerca scientifica, alimentata da una estesa e dettagliata ricognizione dei danni sismici, divulgata in un corposo rapporto d’indagine, noto come “Lawson Report”, dal nome del presidente della commissione d’indagine, Andrew Lawson. Il rapporto, alla cui stesura contribuì il gruppo di scienziati che poi darà vita al primo dipartimento di studi sismici presso l’Università della California, a Berkeley, conteneva anche la prima versione della teoria del rimbalzo elastico, ad opera del geofisico Harry Fielding Reid, ancora oggi la più accreditata teoria sull’origine dei terremoti.

In seguito, a Berkeley, il geologo Harry Oscar Wood (1879-1958) e l’astronomo John Anderson inventarono il sismografo Wood-Anderson, il primo strumento in grado di misurare le onde sismiche di breve periodo, grazie al quale quale fu realizzata la prima rete di sismografi in grado di rilevare l’epicentro dei terremoti. E fu per ordinare e interpretare l’enorme mole di dati raccolti in pochi anni da questa rete, che il celebre Charles Richter (1900-1985), nel 1935, ideò l’omonima scala d’intensità sismica, tutt’oggi il più noto e significativo metodo di misura dell’energia sprigionata dai terremoti.

Come afferma testualmente Reitherman: ‘E’ necessario che almeno un grande terremoto colpisca un paese, perché l’ingegneria sismica possa ivi nascere ed affermarsi. Negli Stati Uniti d’America fu il terremoto di San Francisco del 1906 a dare l’avvio alla moderna ingegneria sismica’.

Messina–Reggio Calabria, 28 dicembre 1908 – magnitudo 7.1: nascita della moderna tecnica delle costruzioni antisismiche.
Le stime sulle vittime del terremoto del 1908 concordano su un minimo di 50000 vite umane, mentre alcune fonti ne stimano circa 80000: fu il terremoto più disastroso che abbia mai colpito il nostro paese.

A differenza del terremoto di San Francisco, che nell’immediato non portò innovazioni nelle tecniche costruttive o avanzamenti normativi, il terremoto di Messina – Reggio Calabria costituì invece un immediato passo avanti nell’ingegneria sismica.

Il motivo fu che probabilmente in Italia all’epoca vi erano più ingegneri civili che in California e forse in tutti gli Stati Uniti, o forse perché il Governo istituì prontamente una commissione di studio sugli effetti del sisma, con lo scopo di emanare in tempi brevi delle linee guida per costruzioni sismoresistenti. E’ indubbio infatti che, mentre il “Rapporto Lawson”, di cui sopra, fu essenzialmente un compendio di studi geologici e sismologici, più che uno studio ingegneristico, il terremoto di Messina e Reggio Calabria fu il primo nella storia ad essere studiato da una numerosa commissione d’ingegneri, che nel 1909 pervenne alla stesura della prime norme sismiche al mondo basate su di un metodo di calcolo analitico, denominato <<metodo del rapporto sismico>>.

Fu l’inizio della moderna tecnica delle costruzioni antisismiche: in un periodo in cui non esistevano dati affidabili sul periodo di vibrazione delle strutture e il concetto di duttilità strutturale era sostanzialmente sconosciuto, il <<rapporto sismico>> fu il primo metodo di calcolo in grado di fornire un criterio analitico di progettazione delle strutture in zona sismica. Ancora oggi ben noto agli ingegneri civili, esso conobbe presto una diffusione planetaria e contribuì enormemente alla sviluppo degli attuali codici di calcolo sismico.

1° settembre 1923, il grande terremoto del Kanto – magnitudo 7.9: la prova che l’ingegneria sismica è sulla strada giusta.
Il terremoto che colpì la regione del Kanto, un’area dell’isola di Honshu (la maggiore isola del Giappone) che comprende la grande area metropolitana di Tokyo-Yokohama, fu un’immane tragedia nazionale. Vi perirono 140000 Giapponesi, la maggior parte dei quali negli incendi divampati dopo le prime scosse sismiche, e ad oggi rimane il sesto evento sismico più disastroso della storia.

Sebbene a prima vista possa apparire paradossale, questo disastro provò che l’ingegneria sismica giapponese era sulla strada giusta. Pochi anni prima infatti, all’interno del Collegio Imperiale d’Ingegneria di Tokyo, gli ingegneri Riki Sano e Tachu Naito concepirono un metodo di progettazione strutturale, in parte basato sui citati studi italiani d’inizio secolo, con il quale Naito realizzò gli unici grandi fabbricati (tre, tra i quali si cita la sede della Banca Industriale del Giappone, un grattacielo di oltre 140 metri), che resistettero con danni minimi nella rovina generale di Tokyo.

L’opera di Naito ebbe un’influenza enorme sull’ingeneria sismica, poichè fu il primo metodo di progettazione strutturale di provata efficacia contro i terremoti. Egli inoltre non fece mai mistero delle sue tecniche, al contrario, ne favorì la diffusione in tutto il mondo. In particolar modo ne trasse grande vantaggio l’ingegneria statunitense, che all’epoca ancora non disponeva di norme sismiche basate su tecniche sicure ed affidabili. Come afferma Reitherman: ‘Se mi si chiedesse quale terremoto ha maggiormente influenzato l’ingegneria sismica nella storia, risponderei senza dubbio il terremoto del Kanto. Non solo segnò un punto di svolta nell’ingegneria giapponese e fu all’origine della prima normativa sismica estesa ad un’intera area metropolitana, ma ebbe anche un’influenza senza precedenti sull’ingegneria sismica mondiale’.

I terremoti del 1931 e del 1935 nel Belucistan, in India/Pakistan: l’ingegneria sismica indiana nasce dalle rovine delle ferrovie.
Il 27 agosto del 1931 il Belucistan, oggi la più grande regione del Pakistan, situata al margine sud-orientale dell’altopiano iraniano, ma all’epoca facente parte dell’Impero Anglo-Indiano, fu colpita da un terremoto di magnitudo 7.3.

A quel tempo, le ferrovie erano l’infrastruttura più grande e tecnologicamente avanzata in India; non stupisce, quindi, che le prime norme sismiche indiane si debbano agli studi di un ingegnere impiegato nelle ferrovie: S.L. Kumar, autore inoltre della prima mappa sismica dell’India, datata 1933. Negli anni ’30 egli si occupò della ricostruzione degli edifici delle Ferrovie Indiane, tutti in muratura, gravemente danneggiati durante il sisma del ’31. Come la maggior parte degli ingegneri civili dell’epoca, egli non possedeva nozioni d’ingegneria sismica, ma si formò sulle pubblicazioni internazionali che si andavano diffondendo in quegli anni, a seguito del terremoto del 1923 in Giappone. Considerata l’abbondanza di rotaie a disposizione, Kumar concluse che la soluzione più praticabile consisteva nell’inserire delle colonne metalliche, sotto forma di rotaie, all’interno delle murature. Ciò che fece del suo lavoro una pietra miliare dell’ingegneria sismica in Oriente, fu l’adozione, per la prima volta, di un metodo di calcolo scientifico, basato sulle teorie sviluppate pochi anni prima dagli ingegneri civili giapponesi.

Kumar compendiò i propri studi sulla ricostruzione post-sismica nel trattato “Theory of Earthquake Resisting Design with a Note on Earthquake Resisting Construction in Baluchistan” (1932), pubblicato appena tre anni prima che un terremoto di magnitudo 7.7 colpisse nuovamente la regione, devastando la città di Quetta; nella distruzione generale rimasero in piedi solo gli edifici che egli progettò, così come era avvenuto dieci anni prima in Giappone, dove i fabbricati costruiti con le soluzioni innovative dell’Ingegner Naito furono i soli a sopravvivere con minimi danni al terremoto del Kanto.

Se le opere pioneristiche di Kumar fossero crollate, il progresso dell’ingegneria sismica, non solo in India, sarebbe stato ritardato di decenni.

Il Terremoto del 3 febbraio 1931 ad Hawke’s Bay, Nuova Zelanda: le prime norme sismiche approdano nell’emisfero australe.
Benché già ai primi coloni britannici, dopo i due terremoti del 1848 e del 1855 nella capitale Wellington, fosse subito chiaro che la Nuova Zelanda era un terra ad alto rischio sismico, fu solo nel 1931 che i Neozelandesi si dotarono delle prime norme sismiche, a seguito del devastante terremoto che colpì la regione di Hawke’s Bay, sulla costa orientale dell’Isola Nord.

In realtà, i Neozelandesi iniziarono molto presto ad adoperarsi per affrontare al meglio i terremoti, tanto che nel 1926 Charles Reginald Ford, un brillante ingegnere civile, pubblicò “Earthquakes and Building Construction”, un vero e proprio manuale d’ingegneria sismica, che compendiava i più recenti studi Americani, Giapponesi ed Italiani in materia. Tuttavia, come avvenne in tutti casi di studio analizzati sinora, non fu che a seguito di un terremoto devastante, che tali principi trovarono effettiva applicazione, nella forma di nuove norme tecniche per le costruzioni.

Il terremoto di Hawke’s Bay possedeva infatti tutti i requisiti individuati da Reitherman: provocò danni enormi, avvenne in un periodo in cui gli ingegneri erano maturi per sviluppare nuovi metodi di progettazione sismica, c’era infine una adeguata ricettività politica riguardo alle norme simiche per le costruzioni.

La Nuova Zelanda fu una colonia britannica fino al 1907, poi una nazione formalmente indipendente, ma di fatto ancora un <<dominion>> britannico fino al 1986. La Gran Bretagna non era un paese sismico, da cui i Neozelandesi potessero importare un know-how per costruzioni antisimiche, tuttavia essi furono in grado di seguire una propria linea scientifica nella lotta ai terromoti, ed a partire dal 1931 la Nuova Zelanda divenne un paese leader nell’ingegneria sismica, in cui furono sviluppati concetti innovativi come quello di <<capacity design>> e di isolamento sismico.

La tesi di Reitherman è dunque chiara: nell’ingegneria sismica, così come in tutte le scienze, il sapere è di carattere cumulativo. Si registrano grandi progressi in concomitanza di particolari congiunture scientifiche e sociali, che costituiscono poi la base per ulteriori progressi, diversamente da altri campi del sapere, dove non di rado grandi costruzioni intellettuali svaniscono inesorabilmente tra le pieghe delle storia.

Il carattere cumulativo della scienza, però, è anche uno dei motivi per cui i suoi riflessi culturali sono così esposti alla rimozione operata dal postmodernismo; come scrisse Emilio Segrè nell’introduzione al suo “Personaggi e scoperte della fisica contemporanea” (Oscar Saggi Mondadori, 1996): ‘E’ vero che nell’insegnamento delle scienze si omette, per tradizione, quasi del tutto la parte storica e biografica, mentre per esempio nello studio della letteratura o della musica essa ha una parte prominente. Ciò è dovuto, credo, al carattere cumulativo della scienza: se non ci fosse stato Newton, qualcun altro avrebbe inventato il calcolo infinitesimale e scoperto la gravitazione, mentre senza Dante nessuno avrebbe scritto la Divina Commedia’.

Per di più l’ingegneria sismica, la cui storia ci narra sovente di catastrofi naturali, diversamente dalla fisica teorica non mira a risolvere i grandi misteri della natura, ma a porci a riparo dalle sue forze, e ci richiama ad un serio realismo, spesso vissuto come un inciampo che ostacola i voli del pensiero. Ha buon gioco allora la radicale presa di posizione anti-illuministica di Nietzsche, e la tesi secondo cui ‘non ci sono fatti, solo interpretazioni’, che ha origine proprio in questo orizzonte teorico: ‘E’ importante che il sapere si trasformi in un susseguirsi di interpretazioni a cui non corrispondono fatti, giacché si deve seguire il modello del pensatore artistico, che dietro alla maschera cerca altre maschere, e non quello del dotto, che dietro al vero cerca la verità[…]. E’ questo passo che risuona in una famosa sentenza di “Matrix” : <<Io so che questa bistecca non esiste. So anche che quando la infilerò in bocca Matrix suggerirà al mio cervello che è succosa e deliziosa. Dopo nove anni sa che cosa ho capito? – Che l’ignoranza è un bene>>7.

Così come solo l’ingegneria sismica ci può mettere al riparo dai terremoti, solo un nuovo realismo ci può mettere al riparo dalle cadute della ragione, come auspica il filosofo Maurizio Ferraris anche nel suo ultimo saggio “Realismo positivo” (Rosenberg & Sellier, 2013), il cui scopo dichiarato è quello di ‘[…] ricucire lo strappo tra la scienza e il senso comune, tra ciò che pensiamo (o che pensano gli scienziati) e ciò di cui facciamo esperienza’. Si tratta di passare dal tentato addio alla verità del postmoderno ad un consapevole (ed illuministico) tentativo di ricostruzione del nostro rapporto con la realtà : ‘noi viviamo in uno stato d’incertezza, che paradossalmente è stato accresciuto, non diminuito dai progressi scientifici. La modernità, che è l’epoca della massima conoscenza, è anche l’epoca della massima inquietudine. E questa inquietudine tocca il suo picco nella seconda metà del Novecento, cioè con il Postmoderno. […] Se siamo così sensibili all’incertezza non è per un qualche fallimento della modernità, ma piuttosto perché siamo diventati più civili ed esigenti, con un processo affine a quello per cui oggi non sopporteremmo le operazioni senza anestesia subite dai nostri antenati8.

Per superare l’inquietudine del presente, tuttavia, non vi è altro rimedio che deporre i vecchi abiti mentali, come afferma il padre del metodo scientifico, Galileo Galilei, nell’opera che Bertolt Brecht gli dedicò9: ‘Mi pare che la pratica della scienza richieda particolare coraggio. Essa tratta il sapere, che è un prodotto del dubbio, e col procacciare sapere a tutti su ogni cosa, tende a destare il dubbio in tutti […]. Finchè l’umanità continuerà a brancolare nella sua madreperlacea nebbia millenaria, fatta di superstizioni e venerande sentenze, finché sarà troppo ignorante per sviluppare le sue proprie energie, non sarà nemmeno capace di sviluppare le energie della natura che le vengono svelate’.

Ora che l’alba di un nuovo realismo sembra dileguare le lunghe ombre del postmoderno, per superare l’inquietudine e non sentirsi prigionieri della tecnica, è necessario comprendere che anche l’ingegneria sismica, come tutte le filiazioni della scienza, con buona pace di Heidegger non è solo ragione calcolante, ma è soprattutto ragione pensante.

fonte: Ingenio


1“Manifesto del nuovo realismo”, Maurizio Ferraris – Editori Laterza – 2012.
2Ibidem.
3Per un’introduzione al postmoderno si veda “Tecnica ed esistenza – una mappa filosofica del Novecento” di Gianni Vattimo – Einaudi, 2002.
4Ibidem.
5Ibidem.
6The theory of sound” (London: MacMillan, 1877)
7“Manifesto del nuovo realismo”, Maurizio Ferraris – Editori Laterza – 2012.
8Ibidem.
9“Vita di Galileo” (1956)