Un argomento dibattuto in questi ultimi anni è stato il momento di inizio e di fine della sequenza sismica dell’Aquila del 2009. Si è discusso inoltre delle caratteristiche della sismicità che ha preceduto il terremoto del 6 aprile: si trattò di uno sciame? O il termine fu introdotto impropriamente? In un recente articolo è stato chiarito che la sequenza aquilana iniziò a gennaio 2009 e aveva i caratteri tipici di uno sciame sismico. Vediamo in questo approfondimento qualche dettaglio su come si è giunti a questo risultato e facciamo qualche confronto e considerazione con quanto avviene in altre regioni d’Italia. Quando è iniziata la sequenza sismica dell’Aquila? |
Per rispondere alla domanda abbiamo utilizzato l’algoritmo di Paul Reasenberg (1985) denominato Cluster2000, distribuito dallo United States Geological Survey (USGS).
L’algoritmo è largamente usato dalla comunità scientifica per analizzare le proprietà statistiche dei cataloghi dei terremoti. Scopo di Cluster2000 è individuare i raggruppamenti (cluster in inglese) di terremoti sia nello spazio che nel tempo.
La procedura analizza un elenco di terremoti, ordinato temporalmente, di cui siano noti l’istante di accadimento, le coordinate geografiche, la profondità e la magnitudo. Essa ci dice, cioè, se due terremoti possono essere considerati parte di un più grande fenomeno fisico che potremmo chiamare “sequenza sismica” o “sciame sismico“.
Utilizzando i parametri standard definiti da Reasenberg (vedi sotto per i dettagli della tecnica), l’analisi fornisce come data d’inizio della sequenza sismica dell’Aquila il giorno 16 gennaio 2009; l’ultimo terremoto della sequenza avviene il 17 aprile 2012, dopo più di 19.800 scosse in oltre 3 anni di sismicità. Per fare una valutazione prudenziale dell’inizio della sequenza sismica abbiamo provato diversi valori di tempo minimo di associazione degli eventi. Solo estendendo questo parametro fino a 10 giorni otteniamo un inizio della sequenza anticipato al 7 gennaio 2009.
Allo stato attuale non esistono leggi note capaci di fornire indicazioni sull’evoluzione delle sequenze sismiche. Ogni sequenza ha delle caratteristiche proprie che possono essere studiate solo dopo che la sequenza sia senza ombra di dubbio terminata. In particolare, non c’è nessuna legge o indicazione che possa dirci se il culmine massimo della sequenza sia stato raggiunto oppure no.
L’Aquila e il Pollino
Per capire quanto le sequenze sismiche possano essere diverse l’una dall’altra osserviamo lasismicità intorno all’Aquila a partire dal 1 Luglio 2005 fino al 31 Marzo 2009, 6 giorni prima del terremoto del 6 Aprile (magnitudo Mw 6.3); confrontiamo questo andamento con la sismicità nel Pollino, intorno a Mormanno (CS), sempre a partire dal 1 Luglio 2005 e fino al 19 ottobre 2012, 6 giorni prima del terremoto di magnitudo Mw 5.2 avvenuto il 25 ottobre 2012 (la massima magnitudo registrata).
A 6 giorni dal terremoto del 6 aprile erano state registrate intorno all’Aquila 245 scosse avvenute in 83 giorni di sequenza sismica (se facciamo iniziare la sequenza il 7 gennaio). La magnitudo massima fino ad allora registrata era ML 4.0 (Mw 4.1 ); solo 4 terremoti avevano superato la magnitudo 3.0.
La sequenza sismica principale intorno a Mormanno inizia, secondo l’algoritmo di Reasenberg, il 30 settembre 2011. Dopo 385 giorni dall’inizio della sequenza, 6 giorni prima della scossa massima di magnitudo ML 5.0 (Mw 5.2), si erano verificati 2.466 terremoti dei quali 16 avevano superato magnitudo 3.0; la magnitudo massima raggiunta era già 4.3. L’evento principale del 25 ottobre 2012 libera una energia 32 volte inferiore rispetto all’energia liberata dal terremoto del 6 aprile all’Aquila. Dopo l’evento principale la sequenza durerà ancora 6 mesi fino al maggio 2013 e produrrà un totale di 4480 scosse.
Va aggiunto che se andassimo ancora più indietro del 2005 troveremmo molte altre sequenze sismiche simili a quelle mostrate qui. Per L’Aquila è stata ricostruita una lunga storia di sequenze simili a quella del 2009, la maggior parte delle quali non è stata seguita da un terremoto distruttivo (Amato e Ciaccio, 2012). Nel solo XX secolo i cataloghi storici ne riportano 23 in Abruzzo, di cui 8 intorno a L’Aquila, tutte con magnitudo massima confrontabile con quella del 2009 fino al 5 marzo. In particolare, l’ultima in ordine di tempo avvenne nel 1985 e si manifestò con caratteristiche molto simili a quella del 2009 (durata di vari mesi, Mmax 4.2, stessa area e profondità ipocentrali) ma non fu seguita da alcun terremoto più forte.
Le sequenze sismiche in Italia
In Italia avvengono ogni anno decine di sequenze sismiche di durata variabile da pochi giorni a molti mesi, con caratteristiche molto diverse in termini di distribuzione spazio-temporale e di magnitudo. In un articolo pubblicato su questo blog all’inizio del 2014, avevamo mostrato chenel solo 2013 in Italia erano state riconosciute in totale oltre cento sequenze, di cui 9 di durata maggiore di due mesi, 11 tra uno e due mesi, 16 tra quindici e trenta giorni, le altre di durata inferiore. La distribuzione di queste sequenze nel nostro territorio è molto diffusa (figura sotto) interessando praticamente tutte le regioni italiane. Numerosi ricercatori stanno studiando le caratteristiche della sismicità italiana per comprendere sempre meglio i meccanismi alla base di questi terremoti, ma non sono riscontrabili al momento elementi che possano far prevedere l’evoluzione temporale e in termini di magnitudo massima delle varie sequenze o sciami.
Sciame o sequenza?
Il termine sciame sismico proviene dall’inglese seismic swarm e fu definito probabilmente per la prima volta dai sismologi giapponesi negli anni ’60 del ‘900 (Mogi, 1963; Utsu, 2002). Come per l’ingleseswarm, anche in italiano il termine sciame viene usato generalmente per indicare un folto gruppo di insetti o più generalmente una moltitudine di individui o cose in movimento.
Premettiamo che sciame (sismico) e sequenza (sismica) non sono due termini alternativi: il primo è un tipo particolare della seconda, categoria più ampia usata per indicare un addensamento spazio-temporale di terremoti. Risulta sempre difficile stabilire se una sequenza può essere definita uno sciame perché, come scrive Utsu (2002) “non esiste una definizione esatta universalmente accettata di aftershocks, foreshocks, and seismic swarms”. Lo stesso Utsu fornisce la seguente definizione: “uno sciame sismico è una concentrazione (cluster) di terremoti in cui non c’è un singolo terremoto di magnitudo predominante (predominantly large)”. Uno sciame si distingue da una classica sequenza mainshock – aftershocks per avere molti terremoti di diverse magnitudo distribuiti irregolarmente nel tempo.
Se guardiamo al grafico della Figura 1, notiamo come le magnitudo del periodo gennaio – marzo 2009 a L’Aquila seguano un andamento di questo tipo, con valori compresi tra 1.0 e 3.0 praticamente in tutto il periodo. Quindi, secondo la classificazione di Utsu (2002), nel caso della sismicità aquilana prima del 6 aprile si tratta proprio di uno sciame. Anche i terremoti del periodo tra il 30 marzo e il 5 aprile rientrano nella tipologia di uno sciame, durante il quale la magnitudo dei terremoti può anche aumentare. Diverso il caso della sequenza dal 6 aprile in poi, in cui a un evento maggiore (ML 5.9, Mw 6.3) sono seguite migliaia di repliche tutte più piccole, che sono diminuite nel tempo in numero e magnitudo seguendo un andamento tipico definito come legge di Omori (1894): una classica sequenza main shock – aftershocks.
Sfatiamo quindi questa credenza: il termine sciame sismico connota una tipologia di sequenza sismica ben nota da molti decenni e non contiene in sé nessun carattere prognostico, tanto meno rassicurante.
L’algoritmo di Reasenberg
Vediamo come funziona la procedura di Reasenberg adottata in questo articolo. Si prendono in considerazione tutte le possibili coppie di terremoti che appartengono al catalogo. Per ciascuna coppia, si deduce se esiste una interazione tra i due terremoti basandosi su un principio di “vicinanza” sia spaziale che temporale. Se due terremoti sono “vicini” sia spazialmente che temporalmente, essi fanno parte di una stessa sequenza. Si applica poi una seconda regola che dice semplicemente: se due terremoti appartengono a due cluster diversi ma si accoppiano tra loro, allora si associano pure i cluster di appartenenza. I due cluster si fondono in un unico cluster.
Ci chiediamo: quando due terremoti sono sufficientemente vicini nello spazio da poter affermare che uno ha influenzato l’accadere dell’altro? e quanto devono essere vicini nel tempo per poter ancora affermare che c’è stata un’interazione tra loro? In altri termini, la domanda è: quando possiamo realmente affermare che ciascuno dei due terremoti analizzati è l’espressione parziale di uno stesso fenomeno macroscopico più grande costituito dall’intera sequenza sismica? La cosa è abbastanza ovvia dopo un grande terremoto: tutti gli eventi successivi, che si susseguono in gran numero e ravvicinati, fanno parte della sequenza. Meno ovvio è definire un’associazione tra due eventi prima che una sequenza sia chiaramente cominciata, in un’area in cui c’è sempre sismicità di fondo. Se osserviamo il catalogo sismico in un’area di raggio 20 km intorno alla citta dell’Aquila, vediamo che dal primo gennaio 2005 ad oggi l’intervallo massimo trascorso tra un terremoto e l’altro è 20 giorni e 18 ore.
È chiaro che se adottassimo 21 giorni come periodo di “associazione” tra due eventi successivi e 40 km come distanza massima di influenza tra due terremoti, otterremmo nell’area un’unica sequenza sismica iniziata nel 2005 e mai finita, che probabilmente sarebbe destinata a durare ancora per anni, forse per sempre. Occorre pertanto adottare un’altra strategia.
Purtroppo la maggior parte della sismologia quantitativa è fatta di misurazioni indirette, al contrario della meteorologia che può fare affidamento su migliaia di misurazioni dirette di parametri fisici quali la pressione, l’umidità, la velocità dell’aria. Noi sismologi non possiamo misurare direttamente le dimensioni di una faglia che si è rotta durante un terremoto. Per nostra fortuna la stragrande maggioranza dei terremoti avviene in profondità e non modifica sostanzialmente la superficie terrestre. Solo in casi eccezionali, e per terremoti molto grandi, si hanno in superficie delle espressioni del fenomeno osservabili direttamente, come rotture della crosta o deformazioni della superficie, che ci forniscono una misura diretta della dimensione orizzontale della faglia. Anche in questi casi però rimane sconosciuta e solo deducibile indirettamente la dimensione verticale della faglia: non possiamo misurare direttamente quanto essa si estenda in profondità.
Per l’algoritmo di Reasenberg due terremoti sono spazialmente vicini se la dimensione delle due rotture è tale che esse possono influenzarsi tra loro. Poiché non possiamo conoscere direttamente le dimensioni delle due rotture, dobbiamo fare delle ipotesi in base ad un modello, cioè a una rappresentazione schematica che riassuma però le caratteristiche principali del fenomeno osservato. Reasenberg ha adottato un modello di rottura che fu proposto nel 1975 dai sismologi Kanamori e Anderson e che viene oggi largamente utilizzato dai sismologi di tutto il mondo. La formulazione matematica del modello è alquanto complessa: essa esprime la lunghezza caratteristica di una faglia in funzione della magnitudo del terremoto e di altri parametri fisici. Per dare un’idea della sua applicazione diciamo che, secondo Reasenberg, la distanza di influenza di un terremoto che avvenga durante una sequenza sismica è di 1.7 km se il terremoto ha magnitudo 3, di 4.4 km se di magnitudo 4, di 11 km se di magnitudo 5 (attenzione, questa è la distanza di influenza del terremoto, non la dimensione della faglia: la lunghezza della rottura risulta essere molto minore).
Rimane da valutare la vicinanza temporale. Reasenberg adotta la ben nota legge di Omori (1894) per le sequenze sismiche, che ci da delle indicazioni sul numero di terremoti osservati durante una sequenza. Dopo che è avvenuto un terremoto grande, si ha un gran numero di terremoti di magnitudo più piccola, e man mano che il tempo passa il numero di terremoti che si susseguono diminuisce in modo inversamente proporzionale al tempo trascorso. Da questa legge, e dall’osservazione di molte sequenze sismiche, Reasenberg deduce una legge empirica che permette di definire qual è il tempo che, dopo un terremoto di data magnitudo, è necessario attendere per essere certi di osservare un altro evento della stessa sequenza sismica. Questo tempo è molto breve se il primo terremoto è di grande magnitudo, e si allunga man mano che diminuisce la magnitudo massima osservata. Inoltre, paradossalmente, il tempo che dobbiamo attendere per essere certi di osservare un altro terremoto della sequenza cresce insieme col crescere del tempo. Come dire, man mano che passa del tempo dal primo terremoto, diminuisce la probabilità che ce ne sia un altro nei prossimi 5 minuti. Questa è una buona notizia: possiamo essere certi che prima o poi una sequenza sismica finirà.
In pratica, per rendere l’algoritmo utilizzabile, Reasenberg pone il periodo di associazione tra due terremoti variabile tra 2 e 10 giorni. Se la sequenza non è iniziata, occorre che avvenga un terremoto entro 2 giorni perché si possa dichiarare iniziata la sequenza. A sequenza iniziata, un periodo di quiescenza di 10 giorni sancisce la fine della sequenza.
fonte: INGV Terremoti