Un anno dopo: il calo demografico a L’Aquila

Riportiamo l’articolo “Le corna del toro” di Alberto Bazzuchi, ricercatore CRESA.

“Prendere il toro per le corna” e’ un modo di dire della lingua italiana che tutti conoscono. Significa affrontare direttamente un problema, lo sanno tutti.

Ecco, noi cominciamo ad avere un problema. Il toro che, a un anno dal terremoto, comincia pericolosamente a materializzarsi davanti a noi si chiama calo demografico. Di problemi/tori, in realta’, ne avremmo molti e di ragguardevole consistenza, però questo e’ diverso. La bestia in questione ha ottime qualita’ camaleontiche, e’ sfuggente, si muove sullo sfondo della scena, ci osserva da lontano ma e’ restia a farsi avanti. E se al sole camminando il nostro corpo fa ombra anche essa si fa ombra. Però se ti avvicini un poco allora ne intuisci i contorni, riconosci le tracce, ne ascolti gli sbuffi. Difficile voltarsi senza un vago senso di inquietudine. L’Aquila da un punto di vista demografico ha iniziato a deperire. Tutta colpa del terremoto? La risposta e’ no e non e’ per niente scontata.

In linea con le tendenze generali del paese la popolazione aquilana negli anni duemila e’ cresciuta in maniera graduale ma costante. Come illustrato dal grafico 1, nell’aprile 2009 i residenti nel comune capoluogo avevano superato le 73 mila unita’. Come sanno tutti questo andamento crescente non e’ attribuibile alla natalita’ locale che invece, come mostra il grafico 2, e’ sempre stata molto bassa. Se ci siamo salvati, questo lo dobbiamo per due terzi ad altri italiani che sono venuti a vivere nella nostra citta’ e per un terzo a famiglie di provenienza extra nazionale.

In effetti, pur con alti e bassi, il saldo migratorio – cioe’ la differenza tra gli iscritti nei registri dell’anagrafe comunale ed i cancellati dai medesimi – e’ stato sempre positivo e comunque tale da più che compensare la bassa natalita’ (grafico 3).

Questo fino all’aprile 2009. Dal maggio successivo il saldo migratorio ha invertito il suo segno e così adesso, febbraio 2010, ci ritroviamo con 420 unita’ in meno. C’era da aspettarselo dopo un terremoto? Forse sì, forse no. È certo un segnale importante. È il toro che prima o poi dovremmo imparare a prendere per le corna e quindi sarebbe bene allenarci sin da subito a farlo.

Si potrebbe aggiungere, a margine, che uno dei comuni maggiormente attrattori della corona aquilana, cioe’ Scoppito, negli stessi mesi ha visto notevolmente aumentare il numero dei nuovi iscritti. Scoppito, in parte anche Pizzoli, gia’ da qualche tempo cominciavano a rosicchiare popolazione al capoluogo: aziende attive, buona qualita’ della vita, vicinanza a L’Aquila, servizi. Un po’ come da qualche anno i principali comuni della corona pescarese, Spoltore per esempio, hanno cominciato a fare con Pescara stessa.

Come si vede dal grafico 4 anche nel comune di Teramo il numero dei cancellati dall’anagrafe ha iniziato, dall’estate scorsa, ad essere superiore a quello degli iscritti. Un leggero effetto terremoto che ha spinto parte della popolazione teramana verso la costa? Chissa’! È scontato che Pescara rappresenti in questo momento il principale attrattore regionale. I picchi del saldo migratorio evidenziati nel grafico 4 lascerebbero poco spazio ad altre interpretazioni.

Le conseguenze demografiche dei disastri naturali si intrecciano naturalmente con le vicende dell’economia locale. Esattamente dieci anni fa Emanuela Guidoboni e Graziano Ferrari hanno prodotto un interessante lavoro di ricerca sugli effetti dei terremoti nelle citta’ storiche1. I due autori hanno analizzato 605 terremoti dal V° secolo avanti Cristo al XX° sintetizzandone le conseguenze in termini demografici ed economici. Una delle principali conclusioni del lavoro e’ che, pur condizionando l’evoluzione successiva delle citta’ colpite, la perdita di popolazione in sé non si e’ mai rivelato un fattore decisivo come invece lo sono le condizioni economiche esistenti al momento del disastro. Si cita come esempio il terremoto che colpì il Regno di Napoli nell’inverno del 1456 che devastò 95 centri abitati e fece oltre 70 mila morti. Ciò nonostante il terremoto non interruppe la positiva tendenza demografica che il Regno di Napoli stava attraversando in quegli anni. Analogamente, dopo il terremoto in Sicilia del 1693 la crisi demografica fu fronteggiata da un processo di ricostruzione che richiamò una considerevole manodopera ed un forte flusso di popolazione da fuori.

D’altro canto, dopo i disastri non sono mancati fenomeni di emigrazione e di abbandono. È capitato che processi di ricostruzione lenti e inadeguatamente supportati abbiano prodotto più consistenti flussi migratori (soprattutto nel periodo compreso tra il quinto ed il decimo anno dopo l’evento). È stato il caso di Siracusa che rimase disabitata per circa venti anni dopo il sisma del 1542 anche se i danni subiti non furono particolarmente pesanti. In altri casi, le difficolta’ finanziarie e le speculazioni edilizie “paralizzarono” l’economia locale con l’effetto di ritardare il rientro della popolazione che aveva cominciato a curare i propri affari altrove.

Questo breve intervento non nutre alcun pessimismo né, d’altra parte, intende fare dell’allarmismo. Vuole dire solo che un certo toro, che al momento si aggira per le nostre campagne e non si azzarda ad entrare in citta’, potrebbe un giorno darci fastidio e ne andrebbero al più presto afferrate le corna.

In generale, la durata media della ricostruzione per i terremoti che si sono verificati tra il XII° ed il XIX° secolo e’ compresa tra i 10 ed i 40 anni. Noi siamo nel XXI°.

da: collettivo99 / giovani tecnici aquilani (www.collettivo99.org)