VIDEO: 10MILA AL LAVORO PER RICOSTRUIRE L’AQUILA, MA POCHI ABRUZZESI

di Marianna Gianforte, Il Centro – Pala e piccone. Piccone e pala. È dura? «Certo, è dura». La stozza di pane che accompagna tonno e pomodoro, o la pasta riscaldata su un fornelletto (lo “scaldino”), vengono consumate in meno di un’ora nel container adibito a mensa del cantiere di via Sallustio. Pieno centro storico, piove e fa un freddo cane. Se sei fortunato, hai uno spazio come questo, riscaldato con una stufa elettrica, per rifocillarti prima di ricominciare con pala e piccone fino alle 17. Quando non sei fortunato «mangi in condizioni precarie appoggiandoti dove capita»: un muretto, un furgone, le stanze piene di polvere in cui si sta lavorando. Ma la fame non aspetta e poco importa che le condizioni dell’ambiente circostante non siano salubri. Gli operai del cantiere dell’aggregato «Buccio di Ranallo» in via Sallustio, ad esempio, sono come una grande famiglia, conoscono gli acciacchi fisici gli uni degli altri, tutti chiedono «l’abbassamento dell’età pensionabile per chi fa lavori usuranti».

LA CARICA DEI 10MILA. Gli operai di questo cantiere sono una decina, ma in tutta L’Aquila alla ricostruzione lavorano in 10mila. Un esercito proveniente in larga parte dal resto della regione e da nord a sud del Paese, a seguito delle ditte “forestiere” che spesso hanno ottenuto i lavori più appetitosi. Diverse quelle che hanno tentato di ripulirsi i bilanci tramite il concordato in bianco, agganciandosi alla ricostruzione e finendo, invece, in fallimento con decine di operai senza più lavoro né speranza di avere i propri stipendi.

Nonostante L’Aquila sia il cantiere più grande d’Europa, «la disoccupazione locale di lunga durata tra i residenti della provincia è elevatissima», spiega il segretario provinciale della Fillea Cgil, Emanuele Verrocchi, «mentre nel 2013 sono state 500 le persone impiegate nell’edilizia che hanno fatto domanda di disoccupazione anche in estate». Un dato che non conforta.

I dieci operai del cantiere di via Sallustio, intanto, scherzano tra loro nella pausa pranzo. Ognuno ha una storia diversa. Berardino è di Marruci, da 31 anni sul cantiere, due figli di 11 e 19 anni; per lui è difficile arrivare a fine mese. Constantin Iuga è romeno, da 12 anni è operaio edile, ha una figlia di 15 anni e la moglie che lo aspettano ogni due settimane a Milano. Poi ci sono Camillo Lo Marco e Fausto Saturni. Camillo scherza sull’età pensionabile: «Prima della pensio’ qua arriva la funziò», (il funerale). Hanno gli occhi stanchi, la schiena piegata dai reumatismi, le mani ruvide alle quali è affidata la rinascita della città dalle macerie. Sono l’altra faccia della ricostruzione, quella che non traspare dai numeri e dalle cifre e che racconta un settore dove c’è un’altissima vertenzialità, una percentuale spaventosa di lavoratori non pagati, o sottopagati, o sfruttati, Tfr non restituiti, straordinari non denunciati e quell’anomalia tutta italiana che è il «lavoro grigio». Il lavoro difficile da stanare perché apparentemente regolare, ma in realtà capace di ovviare con sottili sotterfugi a norme e regole. Come quando fai lavorare un operaio dicendo che è in Cassa integrazione, oppure dichiari che ha lavorato sei ore invece di dieci. Un’anomalia che non riguarda solo l’edilizia. Ma questa è un’altra storia.

SOTTO LA PIOGGIA. Quando piove nei cantieri edili all’aperto non si lavora. In quei giorni gli imprenditori fermano tutto, fanno richiesta di cassa integrazione per «motivi di meteo» e se ne riparla quando torna il sole. Nel cantiere della ditta Aterno costruzioni, a piazza San Pietro, però, si lavora lo stesso. In questo caso non c’entra nulla la «cattiva abitudine», come la definisce il segretario Verrocchi, «di alcuni imprenditori di far lavorare ugualmente anche quando piove, pagando con una retribuzione all’80%». Stavolta il capocantiere è stato costretto ad aprire, perché era prevista la gettata di calcestruzzo (il cantiere riguarda il palazzo tra via Porcinari e piazza San Silvestro), e se il cemento fresco arriva non lo puoi rimandare indietro. Così, si lavora sotto l’acqua otto ore di fila. Il capocantiere è Gianluca Maccioni, 37 anni e da 15 nei cantieri, capelli lunghi e poche chiacchiere, perché ha da coordinare e distribuire mansioni. Nel cantiere lavorano ragazzi che qualche volta non arrivano a 30 anni, come Domenico Pelosi, 28, operaio da quando ne aveva 25, ex operatore in un call center. È vera la storia che non si trova lavoro nei cantieri della ricostruzione? Fa spallucce: «I ragazzi che non trovano forse non vogliono trovare…». E a sorpresa scopri che i tecnici spesso sono donne, come l’architetto 31enne Costanza Montagliani.

QUASI TUTTI STRANIERI. Da piazza San Silvestro al corso il rumore di betoniere e materiale di risulta gettato attraverso gli scivoli copre quello dei passi e sovrasta le chiamate che gli operai si fanno da un’impalcatura all’altra. Al cantiere del consorzio Natellis i lavori sono affidati a un’associazione di ditte composta dalla locale Edimos e dalla Cmb. «È un cantiere in cui lavorano 30 operai a grande maggioranza albanesi, romeni e kosovari», spiega Filippo Tirabassi, funzionario provinciale della Fillea Cgil. Con loro solo due italiani: Alessio Lanciotti, 29 anni di Roma, e Massimo Ciurleo, 58 di Tivoli.

Marianna Gianforte

Il Centro

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