IL Modello di Renzo Piano: “Così una città torna a vivere”

Un bell’articolo, e crediamo molto istruttivo, per la citta’ e i cittadini. Da “La Repubblica”, di Franco La Tecla

E’ Renzo Piano che mi racconta una storia che lo ha impressionato.
Nel centro storico dell’Aquila c’e’ un solo caffe’ aperto, il Nurzia, ma e’ il punto di riferimento di chi e’ stato sfollato anche cento chilometri più in la’. Perché venirsi a prendere un caffe’ qui significa mantenere il contatto con la citta’, con la propria citta’.
Me lo racconta perché e’ parecchio tempo che lo inseguo per chiedergli come pensa si debba ricostruire. Lui e’ restio a parlarne, ma adesso, mi dice, può esprimersi un pò più nel merito perché Claudio Abbado gli ha proposto di offrire agli aquilani, con i soldi della Provincia di Trento, un auditorium subito fuori le mura, tra il Castello e porta Castello. Precisa che e’ una piccola cosa di fronte alla grande avventura della ricostruzione, che e’ un lavoro a titolo del tutto gratuito e che non toglie alcuna delle risorse in loco.
E che però ha un significato importante. E un esempio di come si può ricominciare da subito a ricostruire il centro con materiali leggeri, poco costosi, antisismici. Piano insiste: «una citta’ non e’ un insieme di case, c’e’ qualcosa di talmente prezioso nel tessuto vitale di una citta’ che non lo si può cancellare con un colpo di spugna». Non e’ che le case prefabbricate costruite dalla Protezione Civile siano un errore, andavano fatte, dice, ma sono costruzioni in un nulla urbano, sono piazzate su una zona a vocazione agricola. Non ci si può aspettare da queste case una rinascita.
Ricostruire significa qualcosa di differente. La prima cosa da ricostruire e’ l’attaccamento delle persone alla propria storia in un luogo. Il pericolo e’ dimenticare che l’Aquila e’ un posto in cui esiste una storia personale e collettiva di identificazione con angoli, mura, luci , tramonti, vento, cani, montagne da sfondo, sapori di cibo, accenti di lingua, maniere di salutarsi. Gli dico che io penso che se siamo fatti di qualcosa, noi umani, siamo carne e geografia. Siamo definiti da luoghi che ci hanno cresciuto, impariamo a muoverci nel mondo a partire da un orientamento che ha che fare con quell’andare su e giù per il corso a far vasche, che identifica nei limiti della nostra citta’ il cerchio che andremo ampliando in vita ma che restera’ come unita’ di misura dentro di noi. E’ una fortuna straordinaria essere cresciuti in una citta’ che e’ divenuta nostra e che abbiamo ereditato, o che abbiamo conquistato negli anni, affezionandoci ad essa. Per questo i terremoti possono cancellare una citta’ solo se cancellano la voglia degli abitanti di riaverla, di rimetterla a posto, di rifarsi rifacendola.
Ci sono magnifiche storie di comunita’ di rifugiati che hanno ricostruito la propria mappa mentale altrove, anche a migliaia di chilometri di distanza. Sono anche storie nostre.
Quel terremoto che e’ stato per l’Italia l’emigrazione ha significato ricostruire i centri storici italiani come “little italies” nel ventre di altri mondi. E oggi a Hong Kong le filippine emigrate come colf rifanno i propri villaggi una volta alla settimana sotto la hall della Hong Kong Bank dell’architetto Foster, con la cucina fumante, i saloni di coiffeur, la danza, il karaoke, i giochi dei bambini. Renzo mi ricorda che negli anni ’80 aveva lanciato ad Otranto un esperimento di partecipazione degli abitanti nella ricostruzione del proprio centro storico. Sotto un tendone aveva raccontato che si poteva restaurare da subito con cantieri aperti, materiali leggeri, senza cacciare via gli abitanti dalle proprie case mentre queste venivano restaurate.
La stessa cosa che pensa per l’Aquila. L’auditorium con la piazza antistante deve servire anzitutto ad una popolazione che non ha più piazze, spazi per riunirsi e deve essere usata come “sportello” informativo per gli architetti, le imprese locali e gli abitanti. Renzo sa che alla base del movimento delle carriole c’e’ il costituirsi di consorzi di proprietari per cominciare da subito ad impiantare cantieri di vicinato. Sa quanto sia importante spiegare che esistono materiali e tecniche leggere ed agevoli. L’auditorium sara’ costruito in pannelli di legno che resistono ad un terremoto della scala superiore di quello tragico di un anno fa.
Quando gli chiedo se se la sentirebbe di proporre un piano di ricostruzione mi risponde che non ce n’e’ bisogno. Si perderebbe solo tempo, due tre anni e nel frattempo si perderebbe l`energia magnifica degli abitanti, lavoro mappa mentale vivente, la rete di relazioni che consente che siano loro, gli abitanti la maggiore risorsa economica della ricostruzione. Dice che ci sono architetti venuti dal Friuli e dall`Austria, ma anche locali e giovani e comitati che stanno facendo un lavoro magnifico.
C’e’ solo bisogno che queste energie non vengano frustrate, che vengano agevolate, mentre oggi ai proprietari nel centro storico viene perfino imposto di ricomprarsi le puntellature fatte da agenzie incaricate dalla Protezione Civile in cambio di una prelazione sulla ricostruzione. L’importante e’ che l’effetto citta’, lo sdegno degli abitanti di fronte all’annullamento del proprio orizzonte di vita abbia lo spazio per diventare progetto quotidiano, minuto.
Basta cominciare e un cantiere dara’ l`esempio a quello accanto, fuggendo la logica folle tipicamente italiana dell’assistenza e dei borghi fantasma del Belice. Si possono ricostruire le case come erano, perché il legno consente ogni tipo di intonaco e di modellatura e se non e’ il legno saranno altri materiali come le pietre rese antisismi- che dalle casseforme inventate per la ricostruzione del Friuli.
Come ci aveva insegnato l’Italo Calvino delle citta’ invisibili le citta’ sono una proiezione ad occhi aperti dei sogni dei propri abitanti. Per questo possono sempre rinascere.