L’AQUILA E LA SINDROME DA ISTITUZIONALIZZAZIONE

Lo stato della popolazione aquilana emerso da una ricerca e da un progetto di ascolto attivo realizzato dal Gruppo di Umana Solidarietà nelle new towns de L’Aquila post-sismica.

Il G.U.S. (Gruppo Umana Solidarietà) è un’Organizzazione Non Governativa basata sulla laicità, la solidarietà e la giustizia sociale, che dal 1993 interviene a supporto di popolazioni afflitte da guerre o calamità naturali.

Dopo il sisma del 6 aprile 2009 il G.U.S. ha immediatamente fornito il proprio sostegno alla popolazione aquilana e in seguito alla prima fase emergenziale ha deciso di restare a L’Aquila per continuare ad offrire, in collaborazione con i volontari aquilani, il suo contributo alla popolazione, con l’obiettivo di ricostruire la rete sociale locale che il sisma e soprattutto la nuova pianificazione territoriale avevano disgregato.

Due anni dopo il sisma, infatti, solo la minima parte della popolazione aquilana è rientrata ad abitare nelle proprie abitazioni, la maggior parte vive o in abitazioni provvisorie (autonoma sistemazione) o in casette di legno removibili (soluzione adottata solamente nei piccoli paesi limitrofi a L’Aquila, non in città) o nei progetti C.A.S.E., 19 grandi agglomerati abitativi periferici alla città che ospitano più di 15000 persone. I progetti C.A.S.E. sono generalmente luoghi isolati dal contesto urbano, privi di servizi sociali e di negozi, e scarsamente collegati con i luoghi di aggregazione sociale che a fatica tornano a esistere nei pressi del centro cittadino. In tale realtà si è svolto il progetto “Centra L’Ascolto”, finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali [1], grazie al quale il G.U.S., con il supporto dell’Associazione 180 Amici L’Aquila ONLUS, è stato presente sul territorio con un camper che si è spostato tra i progetti C.A.S.E. di Cese di Preturo, Coppito 3 e Paganica 2 offrendo un servizio di ascolto attivo alla popolazione.

La durata complessiva del progetto è stata di sei mesi, due mesi per ciascun progetto C.A.S.E. selezionato. Parallelamente al servizio di ascolto attivo sono stati somministrati dei questionari alla popolazione delle tre new town volti a indagare lo stato psicofisiologico dei residenti e ad individuare loro eventuali bisogni o problematiche. I test utilizzati sono stati proposti in due momenti: all’inizio della presenza al centro di ascolto e alla fine dell’intervento (circa 2 mesi). L’intervista conteneva: domande per acquisire dati socio-anagrafici, domande aperte sugli effetti e la programmazione degli interventi, test MANSA (Manchester Short Assesement quality of life) per registrare gli indicatori soggettivi e oggettivi della qualità della vita, test BSI (Brief Symptom Inventory) per valutare il livello dei sintomi psichiatrici e fisici e il test IES-R (Impact of Event Scale) per valutare le situazioni di disagio legato agli eventi della vita. La modalità di campionamento della popolazione è stata casuale, un campanello ogni tre di ciascun complesso residenziale selezionato e sono stati somministrati 198 questionari in tutto. La maggior parte degli intervistati 98% ha subito il trauma del terremoto e il 92% sono stati accolti in campi o in alberghi nel periodo successivo al sisma. Nell’analisi dei dati si riscontra un sensibile aumento del consumo di farmaci (prima del terremoto consumavano farmaci il 20% della popolazione, dopo il sisma il consumo è salito al 41%), i principali disturbi sono relativi a problemi cardiaci, renali, tiroidei, diabete, ansia, depressione e insonnia. Nell’analisi della IES-R la presenza di sindrome post traumatica da stress (PTDSD) non sembra essere rilevante. Attraverso un’analisi qualitativa delle informazioni raccolte con l’ascolto attivo e l’organizzazione di eventi relativi al progetto “Centra L’Ascolto” la popolazione risulta essere tendenzialmente apatica, depressa, incapace di pianificare il futuro e di immaginarlo in positivo e tendente alla delega. Tutte queste sintomatologie possono essere riferite alla PTDSD ma questa paradossalmente non sembra essere stata rilevata neanche da altri studi [2]. Personalmente ritengo che lo stato della popolazione aquilana non sembra essere dovuto al sisma stesso ma alla gestione post-sismica dell’emergenza che ha indotto indotto determinati processi di pensiero della popolazione. Processi di pensiero non molto dissimili a quelli individuati da Barton nel 1959 in persone affette da “sindrome da istituzionalizzazione” o “institutional neurosys”.

Alcuni cenni storici per meglio comprendere di cosa stiamo parlando e perché questo raffronto apparentemente estremo: la popolazione aquilana dopo il 6 aprile 2009 è stata soggetta alla più grande evacuazione della storia italiana dopo la seconda guerra mondiale, in tre giorni circa 33000 persone sono state accolte in 187 campi e la restante parte della popolazione (circa 30000) è stata trasferita in alberghi perlopiù situati sulla costa abruzzese. Tale condizione è rimasta invariata per 9 mesi. Il comune e gli enti locali sono stati esautorati e sostituiti da Dipartimento di Comando e Controllo per due anni circa. Tale metodo d’intervento è stato già stato usato precedentemente negli Stati Uniti a seguito di catastrofi naturali (confronta “Shock Economy” di Naomi Klein, 2009) per permettere, secondo l’autrice, di imporre alla popolazione un repentino cambiamento dei propri stili di vita a favore di un “liberismo hard”. In Louisiana, per esempio, a seguito dell’uragano Katrina la popolazione è stata evacuata per mesi e nel frattempo sono state chiuse tutte le scuole e gli asili pubblici e sostituiti con scuole e asili privati (ibidem). A L’Aquila sono state costruite in 9 mesi 19 new town molto spesso in luoghi (parco nazionale) dove nessuno avrebbe mai permesso la costruzione prima del terremoto. Le soluzioni ottenute non sono mai state confrontate con la popolazione che ha da sempre richiesto la ricostruzione delle proprie abitazioni e del centro storico e non una nuova riedificazione. Numerose sono state le speculazioni e tuttora non c’è un piano di ricostruzione della città, così come non ci sono i fondi per attuarla. Tutti i fondi a disposizione sono stati utilizzati per le new town.

Come è possibile che la popolazione si ribella solo 10 mesi dopo a tutto questo? A cosa è dovuto questo ritardo di presa di coscienza? Perché ancora oggi le persone che abbiamo potuto conoscere nel nostro lavoro di ricerca sono ancora tendenzialmente apatiche, depresse e gestiscono con difficoltà la loro vita? Probabilmente perché la lunga permanenza in campi e in alberghi e poi la vita in contesti lontani dalle abitudini precedenti possa aver causato una sorta di “istituzionalizzazione soft” della popolazione, mi riferisco alle teorie di Goffman, Foucault, Basaglia, Burton.

Secondo Goffman “l’istituzione totale è il luogo in cui gruppi di persone risiedono e convivono per un significativo periodo di tempo.” I tratti distintivi di detta istituzione sono:

  • l’allontanamento e l’esclusione dei soggetti istituzionalizzati
  • l’organizzazione formale e centralmente amministrata del luogo e delle sue dinamiche interne
  • il controllo operato dall’alto sui soggetti-membri.

In base a questa teoria possiamo considerare i campi di accoglienza, così come gli alberghi delle “istituzioni totali”.

“Oltrepassato il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale (risultato della malattia che Barton chiama institutional neurosis e che chiamerei semplicemente “istituzionalizzazione”); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità. […] L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata sui tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo.”

Franco Basaglia, La distruzione dell’ospedale psichiatrico.

Rileggere le parole di Franco Basaglia alla luce di quanto è successo e sta tuttora succedendo a L’Aquila conduce ad un risultato sorprendente: non servono mura di coercizione fisiche ma, al pari del prigioniero di Goffman o dell’internato di Basaglia, la vita dei cittadini aquilani dimostra che ciò che accade in un’istituzione totale è applicabile ad una società libera. Il campo di accoglienza è un “ammassamento di corpi e non di energie”, per dirlo con le parole di Foucault.

Possiamo ritenere che la popolazione aquilana sia stata generalmente affetta da una “sindrome da istituzionalizzazione”: una condizione psicopatologica che è possibile riscontrare sia in soggetti sottoposti ad una lunga permanenza in istituzioni chiuse sia anche in soggetti la cui struttura di vita sia improntata al rispetto di rigide e restrittive regole comportamentali. È denominata in letteratura come “nevrosi istituzionale” ed è generalmente caratterizzata da chiusura in se stessi, indifferenza verso il mondo esterno, apatia, regressione a comportamenti infantili, atteggiamenti stereotipati, rallentamento ideico; è inoltre possibile che il soggetto elabori convinzioni deliranti di tipo consolatorio: i cosiddetti “deliri istituzionali” (ideazioni di cui il soggetto è radicalmente convinto ma che non presentano riscontri nella realtà oggettivabile).

L’essere allontanati dalla propria casa, dal luogo del trauma ha inoltre non permesso alla popolazione aquilana di elaborare velocemente il trauma subito; per molti di loro è come se il tempo si fosse fermato al momento del terremoto. Alcune persone non sono mai più tornate a vedere la propria casa, è come se dopo la morte di una persona cara non si partecipasse al suo funerale (che ricordiamo ha la funzione psicologica di elaborare il lutto). Infine dopo circa due anni di sopravvivenza in condizioni precarie la popolazione aquilana si ritrova a vivere non nella propria casa, con il proprio vicinato, nella sua rete sociale di appartenenza ma in luoghi “altri” lontano dai suoi contesti di vita, vicino a persone che non conosce e lontano da negozi e da qualsiasi luogo di aggregazione (fatta eccezione per la tenda chiesa, sempre presente nelle new town).

La popolazione aquilana ha bisogno di molto tempo per poter tornare a vivere adeguatamente, la storia ci ha insegnato che è molto facile creare contesti istituzionalizzanti e allo stesso tempo è molto impegnativo superare tali contesti e le problematiche socio economiche di questo periodo sicuramente non aiutano. Gli aquilani si stanno muovendo, ma forse non abbastanza.

di Emanuele Sirolli [*]

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Note

[*] Psicologo, collaboratore alla ricerca per il progetto “Centra l’Ascolto”.

[1] Ai sensi della lettera f) della legge 383/2000 (direttiva annualità 2009).

[2] Cfr anche progetto SPES “programma di supporto psicosociale e tutela della salute mentale per l’emergenza sisma”, Casacchia M., 2009.

(da lavoroculturale.org)