VIDEO: CASTELVECCHIO CALVISIO, IL PRESEPE MORENTE

testo, video e musica di Franco Cagnoli (vedi anche: Video: Carapelle Calvisio, tra ferite e silenzio)

“Il vero problema di questo paese non è stato il terremoto, ma l’abbandono…”

Queste parole mi furono dette sul posto durante una visita occasionale, da un mio amico costruttore che in quei giorni mi stava sistemando casa a Calascio.

Sono state proprio quelle, le parole che mi sono rimbombate nella testa mentre mi addentravo con la mia telecamera nel cuore martoriato di Castelvecchio Calvisio.

L’abbandono. È esattamente la sensazione con la quale si impatta in questa particolarissima realtà, sostanzialmente diversa da Carapelle nonostante la vicinanza e le storie simili.

L’abbandono: una piaga ben più vecchia del sisma, come sosteneva il mio amico con sdegno e amarezza. Un problema che lascia totalmente sbigottite le persone come me, allergiche alla vita di città, allo smog, alle file negli uffici pubblici, al frastuono, al traffico, alla frenesia e alla calca umana che ti invade lo spazio vitale.

Non può comprendere, una persona come me, come sia possibile che questi borghi non siano prevalentemente vissuti e coccolati da una schiera di propri simili, né, concetto sicuramente meno idealista, come sia possibile che venga ad investire da queste parti (ogni cento anni, se ti dice bene) solamente qualche ricco straniero annoiato, mentre gli anziani locali, protezionisti nel senso peggiore del termine, passano il tempo a litigare e/o parlarsi male alle spalle, e i giovani, sempre più presi dai miti inferti loro dalla maledetta televisione, sembrano snobbare l’enorme meraviglia che si ritrovano sotto il naso, senza, purtroppo, comprenderne pienamente il valore (tutto ciò, ovviamente, con le dovute eccezioni).

D’altro canto, lo sanno bene i pochi che conoscono e amano davvero l’entroterra abruzzese, esiste, ben nascosta, un’altra faccia della medaglia, e duole ammetterlo: tra le caratteristiche che conferiscono fascino a questi paesi, c’è anche quella scia lasciata dalla povertà…dall’emigrazione; dalla cocciutaggine degli abruzzesi. Da quel tantino di trascuratezza, finché proprio non si eccede nell’obbrobrio, e, per l’appunto, dall’abbandono.

Penso alla Toscana. Bellissima, per carità! Ma nel visitare i suoi piccoli borghi ho avuto una costante sensazione di “apparecchiato”; di finto; di perfezione che quasi ti infastidisce (paragone del tutto simile, da appassionato di montagna, tra il Gran Sasso e le Alpi).

È vero: i piccoli paesi d’Abruzzo sono belli anche per questo. Per la loro decadente genuinità, perfettamente coerente con la vera storia delle persone che li hanno popolati in passato. La loro autenticità, di concerto con gli scenari selvaggi ed araldici in cui sono immersi, ti rende passabile anche qualche inevitabile bruttura edilizia…qualche goffo “rattoppo” di cemento o qualche soprelevazione di forati a vista (cose che, certo, sarebbe meglio non vedere).

Ora, com’è vero questo, credo lo sia altrettanto che bisognerebbe stare attenti a non varcare una soglia limite, così come sarà vero anche che tra lasciar morire un paese e trasformarlo in un business privo di anima ed identità ci sarà sicuramente una giusta via di mezzo (Santo Stefano Di Sessanio?).

Quanto alla soglia limite, Castelvecchio rende perfettamente l’idea, perché la soglia limite la si è varcata da tempo. Da ben prima del terremoto, come già asserito, che a conti fatti, seppur qualche danno l’abbia prodotto, non desta certo la rabbia e lo stupore che potrebbe destare a L’Aquila…un capoluogo di regione gravemente ferito, dove le cose restano oggettivamente complicate al di là della (giustissima) rabbia dei cittadini verso i politici; oppure anche a paragone con Onna, Civitaretenga, Villa Sant’Angelo ed altre realtà quasi interamente devastate. O anche, per dirla tutta, rispetto a Carapelle (di cui ho trattato nello scorso servizio), in cui la gravità della situazione appare in stato decisamente più avanzato.

Basterebbe “poco” a Castelvecchio, in realtà, per trasformarsi da Cenerentola in principessa; da paese in via d’abbandono in un’isola felice. Poco, intendiamo bene, rispetto alle realtà appena portate come esempio, e non serve certo essere ingegneri o architetti per rendersene conto. Torno alla Toscana e non posso fare a meno di citare un pensiero comune tra tanti abruzzesi che amano viaggiare: ti viene una rabbia enorme, quando visiti realtà che nonostante abbiano un potenziale dieci volte inferiore al tuo, vengono sfruttate (e tutelate, cosa ancor più importante) cento volte meglio.

Penso anche agli sporadici tedeschi che si affacciano di tanto in tanto da queste parti, facendoci una predica del genere: “il vostro guaio è che siete pigri perché avete già tutto, mentre noi ci siamo dovuti ingegnare per sfruttare risorse molto più limitate.”


Non bisognerebbe fare chissà che. Basterebbe, per l’appunto, limitarsi a preservare quel “tutto”, valorizzandolo, in caso, in maniera intelligente e costruttiva.

Purtroppo, però, viviamo in una Nazione popolata in prevalenza da cialtroni con il mito del superfluo e del denaro facile, capaci di vendere perfino la madre (la propria terra. È la stessa cosa) per andare in giro a fare “bella figura” con l’auto di lusso. Siamo figli del craxismo, della cultura della politica di professione, delle mazzette…dell’arrivismo più lurido, ma anche vittime di un’ignoranza più antica. In Abruzzo, tra diverse oscenità, basta citare la sola discarica di Bussi. Un orrore con il quale gli stessi abruzzesi hanno macchiato di sangue la propria terra, trasformando il confine tra due parchi nazionali in quella che oggi è di fatto la zona più inquinata d’Europa, e la sfiducia nella razza umana, quella definitiva, ti viene quando ti senti dire da un bussese che “intanto quelli portavano lavoro…”.

Ho sempre avuto una teoria secondo la quale un qualcosa non appartenga di diritto a chi se lo ritrova per caso, bensì a chi lo ama e se ne prende cura concretamente. Sarebbe bello, come auspicato in precedenza, che tante persone con un’idea più o meno simile cominciassero ad approdare in questi piccoli borghi meravigliosi (ancora meglio se con qualche lira da investire). Ripetendo anche che è una mezza utopia, sarebbe già qualcosa se la poca gente sveglia presente in questi posti, quella a cui non frega niente dei campanilismi, si unisse per cominciare a cambiare qualcosa concretamente, seppur partendo dal proprio piccolo.

Ho voluto filmare il piccolo cuore disabitato di Castelvecchio Calvisio, come sempre a modo mio, per documentarne l’estrema bellezza in tutta la sua decadenza e solitudine. Un posto dal fascino indescrivibile. Un gioiello in serio pericolo che ti sa proprio di “vecchio”…di immobile. Mura impregnate di storia che sono lì, immobili e mute davanti a te, ma che ti sembra quasi di sentirle lamentarsi…bofonchiare qualcosa tra gli esoterici chiaroscuri di luce di quelle strette viuzze…

Franco Cagnoli

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