I sismologi usano metafore un po’ ardite. Tipo questa: i terremoti somigliano agli attacchi terroristici; di entrambi si sa che prima o poi possono colpire e si sa anche più o meno dove, ma per capire quando si possono solo decifrare, con pazienza, i segni premonitori. Al dipartimento di Matematica e Geoscienze dell’Università di Trieste ci provano dal 2003. Spesso ci sono riusciti, ma nessuno li ha ascoltati. Per dieci anni la scienza “ufficiale” li ha ignorati, qualcuno dice boicottati. La musica è cambiata qualche mese fa: tra aprile e giugno del 2012 c’è circa il 45 per cento di possibilità che l’Emilia Romagna venga investita da un terremoto con magnitudo superiore a 5,4 gradi, avevano previsto le analisi dei professori Giuliano Panza e Antonella Peresan. Anche quella volta le loro stime, a disposizione degli addetti ai lavori e delle autorità, erano rimaste lettera morta. E così a L’Aquila: i calcoli di pericolosità erano corretti, i tempi pure, solo l’epicentro era stato mancato per una decina di chilometri.
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Gli indizi hanno cominciato a essere tanti ed evidenti, soprattutto se confrontati con le previsioni ufficiali: le carte sismiche tradizionali hanno sottostimato o “bucato” oltre la metà dei disastri degli ultimi anni. Così sul gong della scorsa legislatura venticinque parlamentari hanno presentato una proposta di legge per un piano antisismico nazionale, chiedendo che il sistema tradizionale (chiamato probabilistico) venga affiancato dal metodo deterministico «in grado di colmare il rischio di sottostima dell’approccio probabilistico». Qualcosa si è mosso anche all’Istituto di geofisica e vulcanologia, la cattedrale dei sismologi, dove il lavoro di Panza e Peresan non era mai stato preso in considerazione. A inizio anno è stato creato un gruppo di lavoro che dovrà studiare a fondo il lavoro degli scienziati triestini. «È un modello d’avanguardia molto interessante», conferma il presidente dell’Ingv Stefano Gresta, in carica da un anno. «Se i test saranno positivi lo faremo nostro». |
I test, in realtà, esistono già. Il metodo sviluppato da Panza e Peresan – in collaborazione con l’IIiept, un istituto dell’Accademia russa delle Scienze – si basa sulla previsione a medio termine dei terremoti di magnitudo superiore a 5,4 attraverso alcuni algoritmi matematici che tentano di individuare i precursori dei sismi. «I sintomi sono almeno quattro», spiega Antonella Peresan. «Le piccole scosse diventano più frequenti, tendono a raggrupparsi nel tempo, si verificano simultaneamente in aree distanti e, infine, aumentano d’intensità». Sfruttando anche le banche dati e le serie storiche, «siamo in grado di indicare, a partire dalla sismicità minore, l’imminenza di grossi terremoti». Gli algoritmi – applicati anche a sismi già avvenuti – hanno permesso di prevedere 13 dei 15 forti terremoti tra il 1954 e oggi. «I risultati supportano la validità del metodo. La maggior parte dei metodi probabilistici invece non è stata ancora realmente sperimentata».
Il modello triestino non è esente da rilievi. Il principale riguarda un antico dilemma della sismologia: i terremoti si possono prevedere? E formulare previsioni accurate non rischia di generare allarmismi – magari ingiustificati – tra le popolazioni? Gli studi di Panza e Peresan individuano archi di tempo dilatati (anche sei mesi) e spazi ampi (200 e più chilometri). Gli studiosi ne sono consapevoli: «Le indicazioni non vanno interpretate come un “allarme rosso”, tale da giustificare scelte estreme, come l’evacuazione di un’area. Però possono suggerire azioni preventive rilevanti». La verifica dell’operatività dei soccorsi (che spesso invece si attivano solo in emergenza, con tutte le difficoltà del caso), e la pianificazione di operazioni che, dopo il terremoto, sarebbero ostacolate dal caos, come la verifica della stabilità degli edifici e delle vie di comunicazione.
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È quel che l’università di Trieste sta sviluppando con l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie e il Politecnico di Torino. Una stima efficace della pericolosità sismica, unita a un’analisi della vulnerabilità di edifici e infrastrutture e a valutazioni qualitative (quante persone vivono nell’area, quali impianti industriali sono attivi) può consentire un’adeguata prevenzione dei territori più fragili. «Rimettere in sesto una casa di 100 metri quadri lievemente danneggiata costa circa 20 mila euro; se pesantemente danneggiata anche 200 mila euro», raccontano Giuseppe Manzone e Gian Paolo Cimellaro, del dipartimento di Ingegneria strutturale del Politecnico di Torino. «La ricostruzione dell’Emilia costerà almeno 10 miliardi. Come mettere in sicurezza mezzo milione di edifici prima di un sisma». Per non parlare del resto: un mese fa la Regione ha stanziato ancora 30 milioni per l’assistenza alle popolazioni. Intervenire a posteriori costa almeno trenta volte tanto. |
Andrea Rossi, La Stampa, 7.4.2013
























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