L’AQUILA: 8 MILIARDI INTRAPPOLATI NELLA BUROCRAZIA FERMANO LA RICOSTRUZIONE

La strada per far rinascere L’Aquila e i comuni vicini è ancora lunga. Poco più della metà degli abitanti sono tornati nelle loro case. Il Comune ha finalmente approvato il piano, obbligatorio per legge, che detta la via per il recupero degli edifici. Un documento che divide gli esperti, mentre in molti mettono in dubbio quanto fatto fino ad ora: “Già nel 2009 si poteva riparare immediatamente le case che avevano subito piccoli danni e far rientrare gli sfollati nelle loro abitazioni”. Invece, si scelse la via delle ‘New town’ volute da Silvio Berlusconi. Oggi quartieri desolati, sganciati dal resto della città.

(da Repubblica.it) I miliardi rimbalzano come palline in un box di plastica. E il tintinnio dovrebbe alleviare la tristezza di questo terzo anniversario del terremoto (6 aprile 2009: morirono 309 persone a L’Aquila e in una cinquantina di comuni abruzzesi). Dovrebbe, ma non è aria. Nella città di Collemaggio, delle Anime Sante, della Casa dello studente sbriciolata sui corpi di otto ragazzi, si fanno i conti. Sono 27 mila le persone, su 45 mila sfollati, che ancora non sono tornate nelle proprie case. Diecimila di queste vivono con un misero contributo mensile e si arrangiano da parenti e amici oppure pagano un affitto quasi da strozzo all’Aquila o altrove. Gran parte di quelle 27 mila persone abitavano nel centro storico, dove ha resistito il solo Raffaele Colapietra, lo storico ottantenne che non ha mai lasciato, con il suo piccolo esercito di gatti, la palazzina grigia sotto il Castello. “Adesso dovrò trasferirmi anch’io, qui cominciano dei lavori e vado in affitto”, dice il professore. E i gatti? “Verranno con me”. Un altro paio di famiglie, oltre ai gatti, fanno compagnia a Colapietra in tutto il centro storico. Per il resto c’era il deserto subito dopo il 6 aprile e tuttora c’è il deserto. C’erano le transenne e ci sono le transenne. C’era un silenzio cupo, rotto dallo scalpiccìo dei calcinacci sotto le scarpe. E c’è ancora.

Stanziati oltre dieci miliardi. 
Altri conti calano sugli aquilani. Le cifre fioccano: stando a una relazione stilata dal ministro Fabrizio Barca, che ora coordina gli interventi del governo, i soldi finora stanziati ammontano a 10,6 miliardi: 2,9 sono stati spesi per l’emergenza (833 milioni solo per i 4.500 appartamenti del progetto C. a. s. e., le cosiddette new town che ospitarono 15 mila persone, un terzo dei senzatetto aquilani); 7,7 miliardi, si legge sempre nella relazione, dovrebbero coprire i costi per la ricostruzione dell’Aquila e degli altri paesi colpiti.

I passi verso la ricostruzione.
 Ma basteranno? Il tintinnio dei miliardi diventa un tonfo sordo. La ricostruzione dei soli edifici privati nel centro storico dell’Aquila dovrebbe costare 3 miliardi e 800 milioni. Un altro miliardo e mezzo è necessario invece per i centri storici delle cinquanta frazioni disseminate nel vasto territorio comunale. Queste cifre sono contenute nel Piano di ricostruzione da poco approvato dal Comune. È un passo significativo, traccia il disegno futuro della città. Ma di esso si è parlato poco. Il documento urbanistico, realizzato da architetti comunali guidati da Chiara Santoro e da un gruppo di consulenti capeggiato da Daniele Iacovone, dovrebbe fissare le procedure perché il cuore dell’Aquila torni a battere come prima del terremoto. O addirittura meglio. Ma su quel documento, che ancora attende il parere definitivo del Commissario di governo, il presidente della Regione Gianni Chiodi, si addensano anche polemiche. Il criterio ispiratore è nella formula “dov’era, com’era”. Una formula che prevede, però, di ridurre l’altezza di edifici costruiti dopo gli anni Cinquanta, edifici senza alcuna qualità e fra i più danneggiati dal sisma (ma i proprietari sembrano restii ad accogliere l’invito del Comune a spostarsi altrove). Alcune iniziative destano le proteste di Italia Nostra: almeno tre parcheggi interrati e multipiano, uno dei quali accanto alla scalinata che fronteggia la spettacolare facciata di San Bernardino.

Il Piano di ricostruzione è un obbligo di legge. Andava fatto. È stato imposto a tutti i comuni del cratere dal Commissario e dai suoi consulenti, la Struttura tecnica di missione, che però ha impiegato oltre un anno solo per elaborare le “linee guida”. Ma nella faticosa gestazione del Piano si racchiude il paradosso tragico di una città che tre anni dopo il sisma ancora discute di come ricostruire il suo centro. Già il vecchio Piano regolatore della città, approvato nel 1975, conteneva infatti le norme che avrebbero consentito da subito di avviare restauri e ristrutturazioni. Ne è convinto lo stesso Iacovone: “L’80 per cento degli interventi che prevediamo ora sono conformi a quel piano di quasi quarant’anni fa”.

Si è perso un mucchio di tempo. Si avvicinano le elezioni amministrative e chissà quanto se ne perderà ancora, andando indietro come i gamberi, mentre ogni giorno che trascorre infligge altre ferite ai preziosi edifici e rende asfittica la vita di una città senza più un centro. I finanziamenti coprono integralmente solo la prima casa, mentre nel centro storico ci sono molte seconde case che rischiano di restare abbandonate. Inoltre il contributo di 1.270 euro a metro quadro è uguale per edifici del 1960 e del XVIII secolo (un rimborso maggiorato è previsto solo per i palazzi vincolati).

I dubbi sul progetto voluto da Berlusconi.
 Su una cosa concordano architetti e urbanisti di diverso orientamento. È un altro paradosso, ma è così: il centro storico dell’Aquila, la città bellissima ora abitata da fantasmi, transennata, imbullonata nelle impalcature, non è stata rasa al suolo, è inabitata e inabitabile, ma non distrutta. “I crolli nella parte antica non superano il 2 per cento del totale”, stima Iacovone. Le polemiche recano il suono delle cose dette tre anni fa. Quando l’urbanista Vezio De Lucia, il Comitatus Aquilanus e altri sostennero che invece del progetto C. a. s. e., occorreva sistemare provvisoriamente i senzatetto e avviare la riparazione di quel che si poteva riparare nel centro storico, che già a settembre del 2009 poteva accogliere i proprietari delle case che non avevano subito danni gravissimi: il 25 per cento degli edifici. Si scelse, invece, la strada dettata da Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso.

A tre anni dal terremoto siamo ancora ai preliminari. Nelle aree periferiche si lavora, anche disordinatamente e perfino ignorando prescrizioni antisismiche. “Ma è qui che ci vorrebbe una corretta pianificazione urbanistica, qui dove il territorio è stato sconvolto dalle new town. Eppure di questa pianificazione non c’è traccia”, insiste De Lucia. “Non si capisce come questi desolati quartieri si legheranno fra loro e con il centro della città”, aggiunge l’urbanista.

Lo studio Ocse. E invece per il centro storico si discute come se fossimo all’indomani del sisma. E si affollano documenti di varia natura. A metà marzo è stato presentato nei laboratori del Gran Sasso, uno studio realizzato dall’Ocse e dall’Università di Groningen, in Olanda. L’indagine, di cui ha scritto su Repubblica Riccardo Luna, sarà completata a dicembre (è stata finanziata dall’allora capo dipartimento dell’Economia, Fabrizio Barca, ora ministro, da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria). Compaiono indicazioni serissime sulla rinascita economica dell’Aquila e del cratere, sui settori che andranno sviluppati (la cultura, l’ambiente, le tecnologie). Ma ci sono alcuni passaggi che inquietano sia De Lucia che Iacovone: si auspica “un rinnovamento urbanistico” e la possibilità di modificare senza limiti l’interno degli edifici, salvaguardando, ma anche “migliorando”, solo le facciate storiche. E per questo si suggerisce un concorso internazionale di architettura. Incalza Iacovone, preoccupato che si perda altro tempo: “Che cosa fare nel centro storico lo sappiamo bene, sono competenze che noi italiani abbiamo reinventato e insegnato al resto del mondo fin dagli anni Sessanta.  Si devono fare progetti di restauro, di risanamento e di ripristino. Si può decidere che cosa salvare e che cosa no. Ma non si deve disegnare un tracciato urbano, quello c’è già da settecento anni. E poi questi palazzi settecenteschi sono costruiti intorno a dei vuoti, a dei pregiatissimi chiostri, non possiamo svuotarli ancora. E per farci che cosa? Dei falsi?

Francesco Erbani – Repubblica.it