CORRIERE DELLA SERA: L’AQUILA TRE ANNI DOPO, TUTTO UGUALE

«Soldi spesi finora? Chi lo sa…». Basta la risposta di Fabrizio Barca, il ministro delegato al problema, a dare il quadro, agghiacciante, di come è messa L’Aquila quasi tre anni dopo il terremoto del 2009. Nel rimpallo di responsabilità ed emergenze, dopo gli squilli di tromba iniziali, s’è perso il conto. Un numero solo è fisso: lo zero. Quartieri storici restaurati: zero. Palazzetti antichi restaurati: zero. Chiese restaurate: zero. Peggio: prima che fossero rimosse le macerie (zero!), è stata rimossa L’Aquila. Dalla coscienza stessa dell’Italia.

È ancora tutto lì, fermo. Le gonne appese alle grucce degli armadi spalancati nelle case sventrate, i libri caduti da scaffali in bilico sul vuoto, le canottiere che, stese ad asciugare su fili rimasti miracolosamente tesi, sventolano su montagne di detriti e incartamenti burocratici. Decine e decine di ordinanze, delibere, disposizioni, puntualizzazioni, rettifiche e precisazioni che ammucchiate l’una sull’altra hanno fatto un groviglio più insensato e abnorme di certe spropositate impalcature di tubi innocenti e snodi e raccordi che a volte, più che un’opera di messa in sicurezza, sembrano l’opera cervellotica di un artista d’avanguardia.

Ti avventuri per le strade immaginandoti un frastuono di martelli pneumatici e ruspe e betoniere e bracci di gru che sollevano cataste e carriole che schizzano febbrili su e giù per le tavole inclinate. Zero. O quasi zero. Tutto bloccato. Paralizzato. Morto. Come un anno fa, come due anni fa, come tre anni fa. Come quando la protesta del popolo delle carriole venne asfissiata tra commi, virgole e codicilli.

«Noi sottoscritti ufficiali di Pg… riferiamo di aver proceduto, alle ore 10.20 circa odierne, in corso Federico II, di fronte al cinema Massimo, al sequestro di quanto in oggetto indicato perché utilizzato dal nominato in oggetto per una manifestazione non preavvisata…». Trattavasi di «una carriola in pessimo stato di conservazione con contenitore in ferro di colore blu con legatura in ferro sotto il contenitore e cerchio ruota di colore viola» oltre a «una pala con manico in legno».

Sinceramente: se lo Stato italiano avesse affrontato il problema della ricostruzione con lo stesso zelo impiegato nel reprimere l’esasperazione sacrosanta degli aquilani, saremmo a questo punto, trentacinque mesi dopo? Quaranta persone che quel giorno entrarono nella zona rossa per portare via provocatoriamente le macerie sono ancora indagate. Quanti soldi sono stati spesi per questo procedimento giudiziario surreale, oltre al tempo gettato inutilmente per compilare verbali e riempire i magazzini di grotteschi corpi di reato? Boh!

Si sa quanto fu speso per gli accappatoi dei Grandi nei tre giorni del G8: 24.420 euro. Quanto per ciascuna delle «60 penne in edizione unica» di Museovivo: 433 euro per un totale di 26.000. Quanto per 45 ciotoline portacenere in argento con incisioni prodotte da Bulgari per i capi di Stato: 22.500 euro, cioè 500 a ciotolina. Quanto per la preziosa consulenza artistica di Mario Catalano, lo scenografo di Colpo grosso chiamato a dare un tocco di classe, diciamo così, al summit: 92 mila euro. Quanto è stato speso in tutto, però, come detto, non lo sanno ancora neanche gli esperti («Avremo le idee chiare a metà marzo», confida Barca) messi all’opera da Monti.

Intanto il cuore antico dell’Aquila agonizza. E con L’Aquila agonizzano i cuori antichi di Onna e Camarda e gli altri centri annientati dalla botta del 6 aprile 2009. Ridotti via via, dopo le fanfare efficientiste del primo intervento («Nessuno al mondo è stato mai così veloce nei soccorsi!») a un problema «locale». Degli abruzzesi. E non una scommessa «nazionale». Collettiva. Sulla quale si gioca la capacità stessa dello Stato di dimostrarsi all’altezza. In grado di sanare le ferite prima che vadano in putrefazione. Chiusa la fase dell’emergenza l’Abruzzo è piombato nel dimenticatoio. Come se la costruzione a tempo di record e al prezzo stratosferico di 2.700 euro al metro quadro dei Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili, le famose C.a.s.e. dove sono state trasportate 12.999 persone, avesse risolto tutto. «Adesso tocca agli enti locali», disse Berlusconi. E dopo il G8 e la passeggiata con Obama non si è praticamente più visto. Rarissime pure le apparizioni di altri politici. Mentre il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ci metteva come al solito una pezza: tre visite.

Cos’è rimasto, spenti i riflettori, di quella generosa esibizione muscolare sulla capacità di «fare bene, fare in fretta»? Le cose fatte nei primi mesi. La riluttanza di Giulio Tremonti ad aprire i cordoni della borsa. L’addio di Guido Bertolaso. La disaffezione del Cavaliere che, osannato dalle tivù amiche per le prime case donate a fedeli in delirio, si è via via disinteressato del centro storico, che secondo la «leader delle carriole» Giusi Pitari avrebbe visto «solo due volte, nei primi due giorni».

Resta una rissa continua, estenuante, sul cosa fare «dopo». Travasata via via nelle campagne elettorali per le provinciali, per le europee e oggi per le comunali. Di qua la destra, di là la sinistra. Di qua il governatore berlusconiano Giovanni Chiodi, commissario straordinario per la ricostruzione, di là il sindaco democratico del capoluogo (ora ricandidato dopo le primarie) Massimo Cialente.

Il primo picchia sul secondo: «Lo stallo è frutto della saldatura di interessi locali, dai professionisti alle imprese, che hanno sbarrato la porta a competenze esterne. Avevo raccolto le disponibilità di un trust di cervelli bipartisan, da Paolo Leon a Vittorio Magnago Lampugnani, ma non li hanno voluti. Un atto di arroganza. Il fatto è che la politica locale non ha esercitato la leadership».

Il secondo, che fino al momento in cui fece sbattere la porta era vicecommissario, spara sul primo: «A parte il fatto che lui sta a Teramo, a Roma o da altre parti e all’Aquila lo vediamo raramente, è stato un muro di gomma». Un esempio? «La ricostruzione degli alloggi periferici. Per sei mesi si è dovuto attendere il prezziario regionale, con il risultato che nessuno ha potuto presentare i progetti». E mostra una lettera spedita a Chiodi per sollecitare un contributo di 630 mila euro destinato a Paganica: «È un mese e mezzo che lo tiene fermo sul tavolo. Gli ho scritto: “Questi non sono i tempi di un commissario ma i tempi, forse, di un piantone”».

Veleni. Che sgocciolano su tanti episodi. Come quei 3 milioni di euro stanziati dall’ex ministro Mara Carfagna per un centro antiviolenza, che invece sarebbero stati dirottati un po’ per i lavori della Curia e un po’ per la struttura della consigliera di parità della Regione. O ancora i due milioni messi a disposizione dall’ex ministro della Gioventù Giorgia Meloni per un centro giovani, milioni che secondo il sindaco sarebbero chissà come evaporati.

Per non dire delle chiacchiere intorno a una struttura nuova di zecca tirata su mentre tanti edifici d’arte sono ancora in macerie: il San Donato Golf Hotel a Santi di Preturo, pochi chilometri dal capoluogo. Sessanta ettari di parco in una valletta verde, quattro stelle, conference center , centro benessere… Inaugurato a ottobre con la benedizione di Gianni Letta, ha scritto abruzzo24ore.tv , «è meglio noto come l’hotel di Cicchetti». Vale a dire Antonio Cicchetti, ex direttore amministrativo della Cattolica di Milano, uomo con aderenze vaticane, stimatissimo da Chiodi e Letta nonché vicecommissario alla ricostruzione.

Ma il resort è qualcosa di più d’un albergo di famiglia. Nella società che lo gestisce, la Rio Forcella spa, troviamo parenti, medici di grido, uomini d’affari. E molti costruttori: il presidente dell’Associazione imprese edili romane Eugenio Batelli, Erasmo Cinque, la famiglia barese Degennaro… Ma anche la Cicolani calcestruzzi, fra i fornitori di materiali per il post terremoto e una serie di imprenditori locali. Come il consuocero di Cicchetti, Walter Frezza, e suo fratello Armido, i cui nomi sono nell’elenco delle ditte impegnate nel progetto C.a.s.e. e nei puntellamenti al centro dell’Aquila: per un totale di 23 milioni. Appalti, va detto, aggiudicati prima della nomina di Cicchetti. Però… Né sembra più elegante la presenza, tra i soci del resort, dell’ex vicepresidente della Corte d’appello aquilana Gianlorenzo Piccioli, nominato un anno fa da Chiodi consulente (60 mila euro) del commissariato.

L’intoppo più grosso però, come dicevamo, è il groviglio di norme, leggi e regolamenti. Gianfranco Ruggeri, titolare di uno studio di ingegneria, li ha contati: 70 ordinanze della Presidenza del Consiglio, 41 disposizioni della Protezione civile, 96 decreti del commissario. Più 606 (seicentosei!) atti emanati dal Comune dell’Aquila. Senza contare una copiosa produzione di circolari interne. Massa tale che a volte una regola pare in plateale contraddizione con l’altra. Un delirio.

Non bastasse, c’è la «filiera». Una specie di cordata para-pubblica che gestisce le istruttorie. I progetti si presentano a Fintecna, società del Tesoro. Poi vanno a Reluis: la Rete laboratori universitari di ingegneria sismica, coordinata dalla Federico II di Napoli. Quindi al Cineas, consorzio di cui fanno parte 46 soggetti, dal Politecnico di Milano a compagnie assicurative quali Generali e Zurich, che si occupa dell’analisi economica delle pratiche. A quel punto il percorso per avere il contributo erogato dal Comune è completo. Teoricamente, però. Nella sostanza non capita quasi mai al primo colpo. E la pratica rimbalza dentro la filiera come una pallina da flipper.

La Cineas ha valutate positivamente 4.163 delle 8.722 pratiche per le abitazioni periferiche? Ebbene, il Comune ha emesso contributi per sole 2.472 di loro, a causa di vari motivi. Per esempio il fatto che ben 1.138 riguardano singoli appartamenti, ma siccome manca la pratica condominiale a chiudere il cerchio, il finanziamento non può scattare. E nemmeno i lavori. Perché allora non prevedere una pratica unica per ogni condominio? Misteri…

Il risultato di tanti impicci è paradossale: in una città da ricostruire i costruttori mettono gli operai in cassa integrazione e licenziano i dipendenti. E quello che doveva essere il motore della ripresa è fermo. L’opposto esatto di quanto accadde in Friuli, esempio accanitamente ignorato a partire dal coinvolgimento dei cittadini. Il Friuli si risollevò per tappe: prima in piedi le fabbriche, poi le case, poi le chiese. Qui le fabbriche non hanno visto un euro, il miliardo promesso per rilanciare le attività è rimasto in cassa e l’economia è allo stremo. Si è preferita la strada della Protezione civile, del commissario, degli effetti speciali assicurati dalle C.a.s.e. spuntate come funghi dopo il sisma. Quelle con le «lenzuola cifrate e una torta gelato con lo spumante nel frigorifero».

Peccato che adesso, dopo le fanfare e i tagli dei nastri, stiano saltando fuori anche le magagne. Alcune ditte che le hanno costruite sono fallite e non si sa chi deve risolvere certi guai. Come a Colle Brincioni, dove dopo le nevicate di febbraio si è dovuta puntellare una scala.

Sarebbe ingeneroso dire che sia stato tutto un fallimento. Ma dopo la fase dell’emergenza serviva un colpo di reni degno di questo Paese. E quello no, non c’è stato. A tre anni dal terremoto ci sono ancora 9.779 aquilani in «autonoma sistemazione». Persone che hanno perduto la casa e si sono arrangiate. Qualcuno di loro magari pregusta un appetitoso minicondono per le casette che hanno potuto costruire nel giardino dell’abitazione crollata. Nelle aree del terremoto ce ne sono la bellezza di quattromila. Ma è una magra consolazione. Anzi, rischiano alla lunga di essere, con l’attesa sanatoria, una ferita in più nella immagine della città antica da ricostruire.

Per le «autonome sistemazioni» lo Stato continua a pagare 100 mila euro al giorno. Una quarantina di milioni l’anno, a cui bisogna aggiungere la spesa per i 383 abruzzesi ancora in alberghi o «strutture temporanee» come la caserma delle Fiamme Gialle di Coppito, dove sono in 147. Il tutto va a sommarsi al totale, come dicevamo ignoto, sborsato finora. Una cifra nella quale ci sono i costi delle famose C.a.s.e. (808 milioni), dei Map, i Moduli abitativi provvisori che ospitano fra L’Aquila e gli altri Comuni ben 7.186 persone (231 milioni), dei Musp, i Moduli a uso scolastico provvisorio (81 milioni) e dei Mep, Moduli ecclesiastici provvisori (736 mila euro). Ma anche dei puntellamenti dei centri storici: solo per L’Aquila 152 milioni. Più i soldi per la prima emergenza (608 milioni) e i contributi già erogati per la ricostruzione delle case private: un miliardo e 109 milioni. Nonché i compensi della «filiera»: altri 40 milioni l’anno. E le opere pubbliche, le tasse non pagate, i costi delle strutture commissariali e dei consulenti… Il conto è salatissimo, ed è destinato a crescere esponenzialmente. Basta dire che per le sole abitazioni periferiche si dovrebbero spendere 1.524 milioni. E almeno il doppio per quelle del centro. Poi le chiese, le fabbriche, i ponti, le strade…

Ma L’Aquila vale il prezzo. Qualunque prezzo. È inaccettabile che si vada avanti così, navigando a vista, mentre uno dei centri storici più belli d’Italia si sbriciola, popolato soltanto di rari operai ai quali fanno compagnia ancora più rari cani randagi. Case disabitate, chiese vuote, negozi chiusi. Non si può accettare che il terremoto diventi solo il pretesto per far circolare del denaro, foraggiando una burocrazia inefficiente e strapagata, stormi di consulenti famelici, campioni del mondo di varianti in corso d’opera e revisioni prezzi, con l’unico obiettivo di impedire che la giostra infernale si fermi.

Un secolo e mezzo fa, scrivono Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise nello studio ‘Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni’, la nuova Italia savoiarda commise un errore storico ignorando la tragedia del sisma catastrofico avvenuto nel 1857 in Basilicata ai tempi in cui era sotto i Borboni: «La sfida delle ricostruzioni fu forse una delle prime perse dal nuovo regno». Se lo ricordi, Mario Monti: la rinascita dell’Aquila è una sfida anche per lui.

 

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
da corriere.it